“Iniziamo dall’aereo che ho preso per andare in Italia. L’aereo è un grande uccello di ferro che si muove nell’aria con le ali sempre aperte. Vola altissimo e porta nella pancia molti uomini. Gli uomini degli aerei hanno grandi sacchi pieni di cose”. Proveniente da una zona rurale del Ghana, nipote della regina del villaggio e sorretta da una grande fede religiosa, Nana Konadu non parla italiano e conosce pochissimo l’inglese, e quindi racconta il proprio viaggio e il primo periodo in Italia da una prospettiva di costante spaesamento, “come un bambino appena nato che si guarda attorno per capire dov’è.” A ciò corrisponde un effetto straniante per il lettore, che vede alcuni aspetti infelici della propria società osservati dall’esterno: il correre incessante della vita quotidiana, la depressione, l’abbandono degli anziani. A tratti la storia sembra accennare al modello settecentesco del non-europeo che, con la sua stupita innocenza, si fa strumento per sbeffeggiare i guasti della modernità – come i re indiani di Addison, o l’ingenuo di Voltaire. Ma qui non è il tono satirico a dominare: l’autrice racconta una storia realmente accaduta, quella dei suoi 18 anni trascorsi in Italia, con malinconica serenità. La sua è una vicenda di immigrazione in Italia priva di quelle laceranti ingiustizie che siamo abituati ad incontrare. Prima a Palermo e poi a Schio, Nana Konadu si fa apprezzare per le proprie qualità umane. Alla morte della nonna viene nominata regina, ma non smette di lavorare in Italia come colf, e questo le procura notorietà, premi ed articoli sui giornali. Nel frattempo, prima di tornare definitivamente in Ghana, si dà da fare per portare nel suo villaggio un ospedale, la scuola e l’acqua potabile. Il successo di questi progetti, però, non cancella la malinconia: il villaggio di Besoro è descritto come cambiato anche in peggio per colpa dell’arrivo della modernità, della frenesia, dell’ipertensione. Per quanto questo atteggiamento primitivista possa risultare irritante, in fondo lo si può considerare come il prodotto di una voce narrante caratterizzata dalla nostalgia per il mondo in cui è cresciuta, oltre che di una storia personale piuttosto atipica. Ciò che appare molto meno giustificabile è vedere come questa prospettiva venga abbracciata senza alcun distacco critico: nella “Postfazione”, Andrea Pasqualetto scrive che gli “abitanti vivranno più a lungo, certo, avranno molte più cose e più opportunità […]. Ma perderanno questo splendido, ingenuo, puro sorriso.” Nella sua “Prefazione” Massimo Fini arriva a descrivere il villaggio natale di Nana Konadu come un luogo dove la gente era felice “anche se ci si ammalava di malaria bevendo da uno stagno e si moriva un po’ prima di quanto si muoia da noi.” Sembra di tornare indietro di cento anni, a quel decadente pregiudizio modernista per cui le culture altre si possono apprezzare solo nella loro pura, astorica primordialità. E invece sono proprio le parole della nonna Yaa Serwaa, quando esorta la nipote a partire per l’Italia, a prendere le distanze da questo supposto immobilismo: “Vai, […] e accarezza quel mondo con il tuo sorriso. Non piegarti mai a chi appare grande, ascolta sempre chi appare piccolo e non dimenticarti del tuo popolo. Dio sarà con te.”

Pregiudizio modernista

DEANDREA, Pietro
2012-01-01

Abstract

“Iniziamo dall’aereo che ho preso per andare in Italia. L’aereo è un grande uccello di ferro che si muove nell’aria con le ali sempre aperte. Vola altissimo e porta nella pancia molti uomini. Gli uomini degli aerei hanno grandi sacchi pieni di cose”. Proveniente da una zona rurale del Ghana, nipote della regina del villaggio e sorretta da una grande fede religiosa, Nana Konadu non parla italiano e conosce pochissimo l’inglese, e quindi racconta il proprio viaggio e il primo periodo in Italia da una prospettiva di costante spaesamento, “come un bambino appena nato che si guarda attorno per capire dov’è.” A ciò corrisponde un effetto straniante per il lettore, che vede alcuni aspetti infelici della propria società osservati dall’esterno: il correre incessante della vita quotidiana, la depressione, l’abbandono degli anziani. A tratti la storia sembra accennare al modello settecentesco del non-europeo che, con la sua stupita innocenza, si fa strumento per sbeffeggiare i guasti della modernità – come i re indiani di Addison, o l’ingenuo di Voltaire. Ma qui non è il tono satirico a dominare: l’autrice racconta una storia realmente accaduta, quella dei suoi 18 anni trascorsi in Italia, con malinconica serenità. La sua è una vicenda di immigrazione in Italia priva di quelle laceranti ingiustizie che siamo abituati ad incontrare. Prima a Palermo e poi a Schio, Nana Konadu si fa apprezzare per le proprie qualità umane. Alla morte della nonna viene nominata regina, ma non smette di lavorare in Italia come colf, e questo le procura notorietà, premi ed articoli sui giornali. Nel frattempo, prima di tornare definitivamente in Ghana, si dà da fare per portare nel suo villaggio un ospedale, la scuola e l’acqua potabile. Il successo di questi progetti, però, non cancella la malinconia: il villaggio di Besoro è descritto come cambiato anche in peggio per colpa dell’arrivo della modernità, della frenesia, dell’ipertensione. Per quanto questo atteggiamento primitivista possa risultare irritante, in fondo lo si può considerare come il prodotto di una voce narrante caratterizzata dalla nostalgia per il mondo in cui è cresciuta, oltre che di una storia personale piuttosto atipica. Ciò che appare molto meno giustificabile è vedere come questa prospettiva venga abbracciata senza alcun distacco critico: nella “Postfazione”, Andrea Pasqualetto scrive che gli “abitanti vivranno più a lungo, certo, avranno molte più cose e più opportunità […]. Ma perderanno questo splendido, ingenuo, puro sorriso.” Nella sua “Prefazione” Massimo Fini arriva a descrivere il villaggio natale di Nana Konadu come un luogo dove la gente era felice “anche se ci si ammalava di malaria bevendo da uno stagno e si moriva un po’ prima di quanto si muoia da noi.” Sembra di tornare indietro di cento anni, a quel decadente pregiudizio modernista per cui le culture altre si possono apprezzare solo nella loro pura, astorica primordialità. E invece sono proprio le parole della nonna Yaa Serwaa, quando esorta la nipote a partire per l’Italia, a prendere le distanze da questo supposto immobilismo: “Vai, […] e accarezza quel mondo con il tuo sorriso. Non piegarti mai a chi appare grande, ascolta sempre chi appare piccolo e non dimenticarti del tuo popolo. Dio sarà con te.”
2012
ottobre, n.10
22
22
http://www.lindiceonline.com
Africa; Ghana; immigrazione; Italia
Deandrea P.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/127979
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