“È stato l’allarmante fenomeno delle fughe verso la riva nord a far chiudere gli sportelli dei consolati europei sulla riva sud, o è forse stata la chiusura di quegli sportelli uno dei fattori che hanno contribuito alle fughe clandestine e spesso fatali?” Il dibattito sulle tragiche migrazioni attraverso il Mediterraneo si perde spesso nella vaghezza, quando non in una meschinità propagandistica. Il valore di questo libro risiede non solo nella sua capacità di fare le domande appropriate, ma nella sua analisi storica e sociale del fenomeno. Un’analisi concentrata su un unico contesto nazionale a sud del Mediterraneo, quello egiziano, evitando così ogni generalizzazione. La vergogna del titolo è diffusa, e coinvolge sia chi induce a partire i giovani egiziani, sia chi li sfrutta in Italia, magari andando poi a violentare la cultura egiziana con il turismo. El Kamhawi la tocca con mano nell’ottobre del 2007, quando un suo nipote risulta fra i dispersi di uno dei tanti barconi, al largo della Calabria. In quanto giornalista, ha la possibilità di viaggiare in Italia e lo fa quattro volte: questi viaggi gli permettono di parlare con tante persone, ma sono anche lo spunto per riflessioni di ampio respiro su come è cambiata la società egiziana. Si sfata così il primo luogo comune: non sono i poveri dei centri urbani a migrare, ma soprattutto i contadini. E la povertà c’entra solo in parte. Attraverso una politica di saccheggio delle aziende pubbliche e di privatizzazioni corrotte a favore dei grandi speculatori, dagli anni ’90 lo stato vende le industrie tessili e abbandona l’agricoltura: “Nell’estate del 2010, per la prima volta nella storia, i contadini lasciarono incolto il 30% dei terreni del delta del Nilo, una vera catastrofe […] fu una sorta di vendetta dei nuovi ricchi, legati strettamente ai ranghi del potere politico e amministrativo, nei confronti dei contadini poveri a cui Nasser aveva distribuito le terre dei vecchi feudatari […] i contadini iniziarono a rinunciare alla cultura della terra, così come gli egiziani rinunciarono al credo della residenza perpetua in Egitto.” Andare all’estero rimane l’unica risorsa di ascesa sociale. Se a ciò si aggiunge il declino del prestigio del sistema educativo, che comunque non può competere col benessere portato dall’emigrazione, le comunità rurali si sfaldano inesorabilmente. Con abbondanza di storie esemplari e un paradigma analitico che lui definisce “sociologia del corpo”, El Kamhawi descrive il clima di competizione tra famiglie che spinge “il contadino adolescente a rischiare la vita (il corpo) per dimostrare il proprio valore”, con la famiglia che lo sprona “a mettere a repentaglio la sua vita-corpo per la somma di denaro che guadagnerà e per la percentuale di rispetto che apporterà alla famiglia stessa.” Si tratta di giovani già ‘formati’ dalla pratica del lavoro minorile nelle campagne, “in cui i minori venivano coinvolti in un modo che offendeva la tenerezza dei loro corpi”. E per chi non muore in mare e riesce a guadagnare grazie al “sogno italiano”, la speranza di ritorno a casa non fa che alimentare un circolo vizioso: stroncate sul nascere ogni iniziativa di piccola impresa e di investimento nella terra, non resta che utilizzare le rimesse per uno sterile, ostentato consumismo di prodotti occidentali. La struttura comunitaria tradizionale finisce così per deteriorarsi progressivamente, in un vuoto di valori e di autorità non colmato da alcuna presenza dello Stato: “c’è soltanto una rivolta contro il vecchio a vantaggio di un nuovo sistema squallido e caotico […] l’accumulo di ricchezze ha fatto sì che nei villaggi si perdesse il grande rispetto comunitario su cui si basava il sistema sociale tradizionale”. Durante i suoi viaggi in cerca del nipote, l’analisi culturale dell’autore include l’Italia, assumendo anche qui sfumature antropologiche se non ‘biopolitiche’. Grazie alle telecomunicazioni moderne, c’è un villaggio globale dove “proporzionalmente alla conquista di autorità del figlio a Milano, la famiglia assume autorità anche nel villaggio […] una discordia tra due famiglie a al-‘Ushsh può avere ripercussioni a Milano, come un licenziamento o la cacciata di qualcuno da casa.”Allo stesso tempo, è una dimensione globale caratterizzata da un’alienante schizofrenia. Gli egiziani a Milano sono descritti come fantasmi tagliati fuori da ogni tipo di integrazione, nascosti a casa o al lavoro, armati di pazienza e sopportazione in vista dei periodi di vacanza a casa, dove ciò che hanno acquisito diventerà prestigio e potere: “la vera vita sta, e ti attende, solo in Egitto, e non è bene che un egiziano ‘spenda e spanda’ se non sotto lo sguardo della sua comunità d’origine.” Vergogna tra le due sponde è un libro coraggioso (pubblicato da un nuovo, coraggioso editore) che non si sottrae ad esplicite accuse. Né verso l’Italia, vista la complicità della burocrazia ministeriale italiana, della nostra legislazione che acuisce la clandestinità per rendere più sfruttabile la manodopera, per non parlare di alcune accuse di terrorismo fabbricate da polizia e servizi segreti. Né verso l’Egitto, che manda a morire i suoi giovani per poi dedicarsi ad estenuanti dibattiti sull’opportunità di definire “martiri” gli annegati nel Mediterraneo; e a tutto ciò si aggiunga il modo in cui Fratelli Musulmani e militari hanno soffocato gli ideali della recente rivoluzione, marginalizzando le forze progressiste laiche e civili col beneplacito degli Stati Uniti. El Kamhawi racconta le tragedie del Mediterraneo partendo da un principio ineludibile: il legame tra crisi dei paesi d’origine e processi migratori. Su questa linea, alcune associazioni hanno recentemente proposto il “Processo di Tunisi” – in contrapposizione al “processo di Khartoum” promosso da Italia, Unione Europea e governi africani (che punta a esternalizzare le frontiere per farle gestire proprio da coloro che sono tra i responsabili del fenomeno). Ma il tutto viene qui radicato nelle storie delle vittime. Oltre al reportage d’inchiesta e al saggio socio-antropologico, questo libro è percorso anche dalla vena narrativa dell’autore – uno dei più importanti romanzieri egiziani contemporanei e vincitore della medaglia Mahfouz per la letteratura, di cui l’editore Il Sirente ha da poco pubblicato La città del piacere. Lo stile di Vergogna tra le due sponde può ricordare la fiction documentale latino-americana, il testimonio à la Rodolfo Walsh. Esemplare la testimonianza di Mahmud, uno dei 13 superstiti di un barcone di 56 persone, a costante rischio di affondamento per sei lunghi giorni: “Il primo giorno erano umani, un po’ mortificati, alla ricerca di un boccone per vivere […] buttato in mare il quarto cadavere, tutti avevano perso il senso della misericordia […] gli sguardi si rivolgevano alla ricerca di qualcuno affetto da mal di mare. Chi ne manifestava i sintomi diventava la preda dei restanti passeggeri sani”. El Kamhawi incontra Mahmud nel negozio di ortofrutta dove lavora, e si sente dire: “Sono venuto come una bestia per vivere come uno schiavo”.

Viaggi da bestie per vite da schiavi

DEANDREA, Pietro
2015-01-01

Abstract

“È stato l’allarmante fenomeno delle fughe verso la riva nord a far chiudere gli sportelli dei consolati europei sulla riva sud, o è forse stata la chiusura di quegli sportelli uno dei fattori che hanno contribuito alle fughe clandestine e spesso fatali?” Il dibattito sulle tragiche migrazioni attraverso il Mediterraneo si perde spesso nella vaghezza, quando non in una meschinità propagandistica. Il valore di questo libro risiede non solo nella sua capacità di fare le domande appropriate, ma nella sua analisi storica e sociale del fenomeno. Un’analisi concentrata su un unico contesto nazionale a sud del Mediterraneo, quello egiziano, evitando così ogni generalizzazione. La vergogna del titolo è diffusa, e coinvolge sia chi induce a partire i giovani egiziani, sia chi li sfrutta in Italia, magari andando poi a violentare la cultura egiziana con il turismo. El Kamhawi la tocca con mano nell’ottobre del 2007, quando un suo nipote risulta fra i dispersi di uno dei tanti barconi, al largo della Calabria. In quanto giornalista, ha la possibilità di viaggiare in Italia e lo fa quattro volte: questi viaggi gli permettono di parlare con tante persone, ma sono anche lo spunto per riflessioni di ampio respiro su come è cambiata la società egiziana. Si sfata così il primo luogo comune: non sono i poveri dei centri urbani a migrare, ma soprattutto i contadini. E la povertà c’entra solo in parte. Attraverso una politica di saccheggio delle aziende pubbliche e di privatizzazioni corrotte a favore dei grandi speculatori, dagli anni ’90 lo stato vende le industrie tessili e abbandona l’agricoltura: “Nell’estate del 2010, per la prima volta nella storia, i contadini lasciarono incolto il 30% dei terreni del delta del Nilo, una vera catastrofe […] fu una sorta di vendetta dei nuovi ricchi, legati strettamente ai ranghi del potere politico e amministrativo, nei confronti dei contadini poveri a cui Nasser aveva distribuito le terre dei vecchi feudatari […] i contadini iniziarono a rinunciare alla cultura della terra, così come gli egiziani rinunciarono al credo della residenza perpetua in Egitto.” Andare all’estero rimane l’unica risorsa di ascesa sociale. Se a ciò si aggiunge il declino del prestigio del sistema educativo, che comunque non può competere col benessere portato dall’emigrazione, le comunità rurali si sfaldano inesorabilmente. Con abbondanza di storie esemplari e un paradigma analitico che lui definisce “sociologia del corpo”, El Kamhawi descrive il clima di competizione tra famiglie che spinge “il contadino adolescente a rischiare la vita (il corpo) per dimostrare il proprio valore”, con la famiglia che lo sprona “a mettere a repentaglio la sua vita-corpo per la somma di denaro che guadagnerà e per la percentuale di rispetto che apporterà alla famiglia stessa.” Si tratta di giovani già ‘formati’ dalla pratica del lavoro minorile nelle campagne, “in cui i minori venivano coinvolti in un modo che offendeva la tenerezza dei loro corpi”. E per chi non muore in mare e riesce a guadagnare grazie al “sogno italiano”, la speranza di ritorno a casa non fa che alimentare un circolo vizioso: stroncate sul nascere ogni iniziativa di piccola impresa e di investimento nella terra, non resta che utilizzare le rimesse per uno sterile, ostentato consumismo di prodotti occidentali. La struttura comunitaria tradizionale finisce così per deteriorarsi progressivamente, in un vuoto di valori e di autorità non colmato da alcuna presenza dello Stato: “c’è soltanto una rivolta contro il vecchio a vantaggio di un nuovo sistema squallido e caotico […] l’accumulo di ricchezze ha fatto sì che nei villaggi si perdesse il grande rispetto comunitario su cui si basava il sistema sociale tradizionale”. Durante i suoi viaggi in cerca del nipote, l’analisi culturale dell’autore include l’Italia, assumendo anche qui sfumature antropologiche se non ‘biopolitiche’. Grazie alle telecomunicazioni moderne, c’è un villaggio globale dove “proporzionalmente alla conquista di autorità del figlio a Milano, la famiglia assume autorità anche nel villaggio […] una discordia tra due famiglie a al-‘Ushsh può avere ripercussioni a Milano, come un licenziamento o la cacciata di qualcuno da casa.”Allo stesso tempo, è una dimensione globale caratterizzata da un’alienante schizofrenia. Gli egiziani a Milano sono descritti come fantasmi tagliati fuori da ogni tipo di integrazione, nascosti a casa o al lavoro, armati di pazienza e sopportazione in vista dei periodi di vacanza a casa, dove ciò che hanno acquisito diventerà prestigio e potere: “la vera vita sta, e ti attende, solo in Egitto, e non è bene che un egiziano ‘spenda e spanda’ se non sotto lo sguardo della sua comunità d’origine.” Vergogna tra le due sponde è un libro coraggioso (pubblicato da un nuovo, coraggioso editore) che non si sottrae ad esplicite accuse. Né verso l’Italia, vista la complicità della burocrazia ministeriale italiana, della nostra legislazione che acuisce la clandestinità per rendere più sfruttabile la manodopera, per non parlare di alcune accuse di terrorismo fabbricate da polizia e servizi segreti. Né verso l’Egitto, che manda a morire i suoi giovani per poi dedicarsi ad estenuanti dibattiti sull’opportunità di definire “martiri” gli annegati nel Mediterraneo; e a tutto ciò si aggiunga il modo in cui Fratelli Musulmani e militari hanno soffocato gli ideali della recente rivoluzione, marginalizzando le forze progressiste laiche e civili col beneplacito degli Stati Uniti. El Kamhawi racconta le tragedie del Mediterraneo partendo da un principio ineludibile: il legame tra crisi dei paesi d’origine e processi migratori. Su questa linea, alcune associazioni hanno recentemente proposto il “Processo di Tunisi” – in contrapposizione al “processo di Khartoum” promosso da Italia, Unione Europea e governi africani (che punta a esternalizzare le frontiere per farle gestire proprio da coloro che sono tra i responsabili del fenomeno). Ma il tutto viene qui radicato nelle storie delle vittime. Oltre al reportage d’inchiesta e al saggio socio-antropologico, questo libro è percorso anche dalla vena narrativa dell’autore – uno dei più importanti romanzieri egiziani contemporanei e vincitore della medaglia Mahfouz per la letteratura, di cui l’editore Il Sirente ha da poco pubblicato La città del piacere. Lo stile di Vergogna tra le due sponde può ricordare la fiction documentale latino-americana, il testimonio à la Rodolfo Walsh. Esemplare la testimonianza di Mahmud, uno dei 13 superstiti di un barcone di 56 persone, a costante rischio di affondamento per sei lunghi giorni: “Il primo giorno erano umani, un po’ mortificati, alla ricerca di un boccone per vivere […] buttato in mare il quarto cadavere, tutti avevano perso il senso della misericordia […] gli sguardi si rivolgevano alla ricerca di qualcuno affetto da mal di mare. Chi ne manifestava i sintomi diventava la preda dei restanti passeggeri sani”. El Kamhawi incontra Mahmud nel negozio di ortofrutta dove lavora, e si sente dire: “Sono venuto come una bestia per vivere come uno schiavo”.
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Egitto, Mediterraneo, migrazioni
Deandrea, Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1522302
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