La poesia di apertura, intitolata come la raccolta, affronta direttamente il tema autobiografico della malattia: “Troppe delle cellule migliori del mio corpo / prudono, frastagliate, inacerbite / in questa gelida primavera.” Ciò ispira un’espansione della mente verso l’assoluto: “Alza lo sguardo e con la coda dell’occhio coglierai / eclissi, foglia d’oro, comete, angeli, lampadari, / raggiungili se vuoi”. L’intero volume si sviluppa proprio su queste due direzioni. L’orecchio interno è rivolto alle sensazioni corporee: “Sentivo le membrane / del mio corpo tremare per il fluido / che contengono, e il flusso maestoso della linfa, / il pulsare accelerato del sangue.” A questo si alterna la tensione verso il mondo, che spazia dalla sua architettura (“I muri hanno polmoni e palpebre / e pinne di vetro, e pinne di pietra / per guidarci nell’aria urbana”) al formicolio ubriacante della natura, reso così creativamente in italiano dal testo originale a fronte: “Cosa c’è nel ligustro / che si muove tra i rami / e le foglie morte? (…) Sono io, che giro vorticando / tra il fogliame bruno, ridendo / e facendo l’occhiolino a ogni / bagliore del sole / che c’è –e–non–c’è, c’è –e–non–c’è, c’è –e–non–c’è.” In molte parti della raccolta interiorità ed ambiente si fondono, in modo che mente e sensazioni corporee assorbano il mondo reale: “inspiro e divento tutto quel che vedo”. Ma la realtà è fagocitata dalla voce poetica anche in forme meno concettuali, più dirette, se non magico-realiste: “potrei ingoiare il vocabolario, / inspirare fughe intere in tedesco e in latino, / strofinarmi la pelle con le note per far cantare i pori.” Si può provare ad estrarre una biglia di giada inserita nell’orecchio per facilitare il sonno usando un “piccolo sottomarino con la cordicella. / Lasciò entrare un colibrì: le ali le fecero il solletico, / colpì la giada col becco. Il gattino / rifiutò di infilare la zampa nel buio della sua testa, / la lumaca era troppo lenta da sopportare. La biscia / fece un sonnellino nel condotto auricolare.” Sono questi i modi in cui Shapcott costruisce ponti tra i mondi più disparati, una delle qualità intrinseche della poesia. Questa pluripremiata raccolta, pregevolmente pubblicata da Del Vecchio, si chiude con una mappa concettuale (di cui però non è chiara la fonte) che vuole essere una sorta di guida anarchica alla lettura, tanto auto-ironica quanto significativa delle connessioni brulicanti in questi versi. L’introduzione dell’autrice allarga poi i termini del discorso definendo questo approccio “anti-geografia”, laddove l’incubo non consiste nel vagare ma in un “esilio dal viaggio, e il conseguente contrarsi dell’immaginazione (…) la storia insulare dell’Inghilterra, la piccola Inghilterra, è finita.” Shapcott omaggia come suo modello ispiratore la poetessa Elizabeth Bishop, “americana riluttante”, mentre la postfazione di Splendore individua anche una presenza sottotesto delle metamorfosi ovidiane, e della tradizione poetica inglese sulla natura effimera dell’esistenza. Verrebbe da pensare a “Mutability” (1816) di Shelley (“Siamo come nuvole che velano la luna a mezzanotte; / così irrequiete sfrecciano, e sfavillano, e fremono”), ma la conclusione malinconica di questo breve componimento, “niente nel mondo può durare, eccetto la mutevolezza”, condivide poco con la vitale esplosione di sensazioni e sentimenti dell’immaginario shapcottiano, con la sua “poesia panteistica senza vezzi bucolici”, come scrive Maria Baiocchi su Alias-Il manifesto (14/2/2016). A questo riguardo va aggiunto che Della mutabilità non è un rapporto a due tra voce poetica e mondo, ma coinvolge nelle sue compenetrazioni anche il prossimo, come ad esempio il compagno malato: “Desidero la notte quando sono artefice / del tempo che ci resta e solo la sua cara / pelle di vecchio tra noi, così sottile che potrebbe sciogliersi / contro i miei seni sotto la calda coltre.” Una zia senescente diventa anch’essa maestra di sconfinamenti sensoriali: “non desideri mai / andare al mercato e perderti / tra le pentole, la frutta e gli scampoli di stoffa? Non vuoi / fare esperimenti con la pioggia, nasconderti nelle tempeste / coprirti il corpo con uno strato sottile di / gocce di pioggia? Non vuoi vendere online / le tue unghie tagliate?” La presenza inquietante di uno scorpione sulla parete della camera da letto ispira una serie di giustificazioni per ucciderlo, che diventano anche tagliente ammissione di fragilità umana verso altre forme di vita: “L’ammazzo per essere certa che vivrò. L’ammazzo per sentirmi viva. L’ammazzo perché sono più debole di lui. L’ammazzo perché non lo capisco. (…) L’ammazzo perché rifiuta di parlarmi.” Insomma, l’altro da sé è pienamente coinvolto, e non ultimo il lettore, cui si chiede indulgenza per questo “estatico” atteggiamento: “mio pubblico, / perdonami, e dimentica quel che / sta accadendo nelle mie cellule. / È a te che penso / e, alzando la voce, / è a te che parlo, a te.”

Lezioni di anti-geografia

DEANDREA, Pietro
2016-01-01

Abstract

La poesia di apertura, intitolata come la raccolta, affronta direttamente il tema autobiografico della malattia: “Troppe delle cellule migliori del mio corpo / prudono, frastagliate, inacerbite / in questa gelida primavera.” Ciò ispira un’espansione della mente verso l’assoluto: “Alza lo sguardo e con la coda dell’occhio coglierai / eclissi, foglia d’oro, comete, angeli, lampadari, / raggiungili se vuoi”. L’intero volume si sviluppa proprio su queste due direzioni. L’orecchio interno è rivolto alle sensazioni corporee: “Sentivo le membrane / del mio corpo tremare per il fluido / che contengono, e il flusso maestoso della linfa, / il pulsare accelerato del sangue.” A questo si alterna la tensione verso il mondo, che spazia dalla sua architettura (“I muri hanno polmoni e palpebre / e pinne di vetro, e pinne di pietra / per guidarci nell’aria urbana”) al formicolio ubriacante della natura, reso così creativamente in italiano dal testo originale a fronte: “Cosa c’è nel ligustro / che si muove tra i rami / e le foglie morte? (…) Sono io, che giro vorticando / tra il fogliame bruno, ridendo / e facendo l’occhiolino a ogni / bagliore del sole / che c’è –e–non–c’è, c’è –e–non–c’è, c’è –e–non–c’è.” In molte parti della raccolta interiorità ed ambiente si fondono, in modo che mente e sensazioni corporee assorbano il mondo reale: “inspiro e divento tutto quel che vedo”. Ma la realtà è fagocitata dalla voce poetica anche in forme meno concettuali, più dirette, se non magico-realiste: “potrei ingoiare il vocabolario, / inspirare fughe intere in tedesco e in latino, / strofinarmi la pelle con le note per far cantare i pori.” Si può provare ad estrarre una biglia di giada inserita nell’orecchio per facilitare il sonno usando un “piccolo sottomarino con la cordicella. / Lasciò entrare un colibrì: le ali le fecero il solletico, / colpì la giada col becco. Il gattino / rifiutò di infilare la zampa nel buio della sua testa, / la lumaca era troppo lenta da sopportare. La biscia / fece un sonnellino nel condotto auricolare.” Sono questi i modi in cui Shapcott costruisce ponti tra i mondi più disparati, una delle qualità intrinseche della poesia. Questa pluripremiata raccolta, pregevolmente pubblicata da Del Vecchio, si chiude con una mappa concettuale (di cui però non è chiara la fonte) che vuole essere una sorta di guida anarchica alla lettura, tanto auto-ironica quanto significativa delle connessioni brulicanti in questi versi. L’introduzione dell’autrice allarga poi i termini del discorso definendo questo approccio “anti-geografia”, laddove l’incubo non consiste nel vagare ma in un “esilio dal viaggio, e il conseguente contrarsi dell’immaginazione (…) la storia insulare dell’Inghilterra, la piccola Inghilterra, è finita.” Shapcott omaggia come suo modello ispiratore la poetessa Elizabeth Bishop, “americana riluttante”, mentre la postfazione di Splendore individua anche una presenza sottotesto delle metamorfosi ovidiane, e della tradizione poetica inglese sulla natura effimera dell’esistenza. Verrebbe da pensare a “Mutability” (1816) di Shelley (“Siamo come nuvole che velano la luna a mezzanotte; / così irrequiete sfrecciano, e sfavillano, e fremono”), ma la conclusione malinconica di questo breve componimento, “niente nel mondo può durare, eccetto la mutevolezza”, condivide poco con la vitale esplosione di sensazioni e sentimenti dell’immaginario shapcottiano, con la sua “poesia panteistica senza vezzi bucolici”, come scrive Maria Baiocchi su Alias-Il manifesto (14/2/2016). A questo riguardo va aggiunto che Della mutabilità non è un rapporto a due tra voce poetica e mondo, ma coinvolge nelle sue compenetrazioni anche il prossimo, come ad esempio il compagno malato: “Desidero la notte quando sono artefice / del tempo che ci resta e solo la sua cara / pelle di vecchio tra noi, così sottile che potrebbe sciogliersi / contro i miei seni sotto la calda coltre.” Una zia senescente diventa anch’essa maestra di sconfinamenti sensoriali: “non desideri mai / andare al mercato e perderti / tra le pentole, la frutta e gli scampoli di stoffa? Non vuoi / fare esperimenti con la pioggia, nasconderti nelle tempeste / coprirti il corpo con uno strato sottile di / gocce di pioggia? Non vuoi vendere online / le tue unghie tagliate?” La presenza inquietante di uno scorpione sulla parete della camera da letto ispira una serie di giustificazioni per ucciderlo, che diventano anche tagliente ammissione di fragilità umana verso altre forme di vita: “L’ammazzo per essere certa che vivrò. L’ammazzo per sentirmi viva. L’ammazzo perché sono più debole di lui. L’ammazzo perché non lo capisco. (…) L’ammazzo perché rifiuta di parlarmi.” Insomma, l’altro da sé è pienamente coinvolto, e non ultimo il lettore, cui si chiede indulgenza per questo “estatico” atteggiamento: “mio pubblico, / perdonami, e dimentica quel che / sta accadendo nelle mie cellule. / È a te che penso / e, alzando la voce, / è a te che parlo, a te.”
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Shapcott, poesia inglese, malattia, panteismo
Deandrea, Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1560107
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