Fra gli episodi più censurati d’involuzione del linguaggio normativo v’è certamente quel celebre «malgrado il requisito della buona fede» che compariva nella versione italiana dell’art. 3, comma 1°, Dir. Ce 13/93. Nel giugno del 2015, a distanza di più di vent’anni dal suo varo, la formula è stata ufficialmente rettificata nella locuzione «in contrasto con il requisito della buona fede»: s’è dunque imposta, anche nella lettera (italiana) della direttiva, una concezione strettamente oggettiva della buona fede quale metro di vessatorietà. Una concezione siffatta avrebbe dovuto imporsi fin da principio, ma non sono mancate in dottrina e giurisprudenza voci inclini a professare una concezione viceversa soggettiva della buona fede consumeristica, la buona fede come predisposizione unilaterale di clausole «inavvertitamente» vessatorie. Sennonché le innumerevoli incertezze in cui sono caduti gli interpreti nel tentativo d’appianare le storture del linguaggio sono a loro volta il sintomo di un’involuzione, questa volta del pensiero giuridico: la buona fede – la si «voglia» oggettiva o soggettiva – è pur sempre regola d’azione, e mal si presta a funzioni valutative, cui pure l’ha chiamata il legislatore europeo. Questo spiega il netto prevalere degli elenchi presuntivi nel giudizio di vessatorietà – a tutto scapito delle clausole generali quali buona fede e significativo squilibrio –, ma spiega anche, per lo meno in parte, lo stallo decisorio in cui versa la Corte di Giustizia UE, da quando ha sostanzialmente rinunciato al controllo contenutistico per demandarlo "in toto" al giudice nazionale. In assenza di qualche rivolgimento nel "modus operandi" della Corte UE, anche le ricadute pratiche della rettifica apportata all’art. 3, comma 1°, Dir. Ce 13/93 potrebbero rivelarsi modeste e poco protettive del consumatore.
Alcune considerazioni «malgrado» o «contro» la buona fede dopo la rettifica della dir. Ce 13/93
FERRANTE, Edoardo
2017-01-01
Abstract
Fra gli episodi più censurati d’involuzione del linguaggio normativo v’è certamente quel celebre «malgrado il requisito della buona fede» che compariva nella versione italiana dell’art. 3, comma 1°, Dir. Ce 13/93. Nel giugno del 2015, a distanza di più di vent’anni dal suo varo, la formula è stata ufficialmente rettificata nella locuzione «in contrasto con il requisito della buona fede»: s’è dunque imposta, anche nella lettera (italiana) della direttiva, una concezione strettamente oggettiva della buona fede quale metro di vessatorietà. Una concezione siffatta avrebbe dovuto imporsi fin da principio, ma non sono mancate in dottrina e giurisprudenza voci inclini a professare una concezione viceversa soggettiva della buona fede consumeristica, la buona fede come predisposizione unilaterale di clausole «inavvertitamente» vessatorie. Sennonché le innumerevoli incertezze in cui sono caduti gli interpreti nel tentativo d’appianare le storture del linguaggio sono a loro volta il sintomo di un’involuzione, questa volta del pensiero giuridico: la buona fede – la si «voglia» oggettiva o soggettiva – è pur sempre regola d’azione, e mal si presta a funzioni valutative, cui pure l’ha chiamata il legislatore europeo. Questo spiega il netto prevalere degli elenchi presuntivi nel giudizio di vessatorietà – a tutto scapito delle clausole generali quali buona fede e significativo squilibrio –, ma spiega anche, per lo meno in parte, lo stallo decisorio in cui versa la Corte di Giustizia UE, da quando ha sostanzialmente rinunciato al controllo contenutistico per demandarlo "in toto" al giudice nazionale. In assenza di qualche rivolgimento nel "modus operandi" della Corte UE, anche le ricadute pratiche della rettifica apportata all’art. 3, comma 1°, Dir. Ce 13/93 potrebbero rivelarsi modeste e poco protettive del consumatore.File | Dimensione | Formato | |
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