Nel domandarsi come difendere un richiedente asilo e “cogliere la complessità del caso”, un avvocato sogna di riuscirci grazie agli “arabeschi giuridici che valicano frontiere, / ampliando il quadro fuori dalla cornice.” La chiave di volta di queste poesie è proprio la maniera in cui Caroline Smith cerca di ampliare il quadro e decentrare la prospettiva, per raccontare le vite dei migranti in Gran Bretagna e di chi se ne occupa. Come sottolinea Splendore nella sua Introduzione, il primo passo è “rinunciare al ruolo convenzionale dell’io poetico” per concentrarsi sul personaggio: uno per ogni poesia, in una sorta di Spoon River. Il secondo passo è concretizzare la situazione attraverso un oggetto o un luogo che, scrive sempre Splendore, diventano “figure di collegamento con la zona più oscura e profonda dei suoi protagonisti”. Il giudice che viene a sapere dei suicidi dopo la sua sentenza di deportazione, per esempio, “fu come se si fosse svegliato / e avesse scoperto di essere / un intruso in casa sua”; tormentato dai dubbi, comincia a vedere del senso in ciò che prima gli appariva assurdo, “come una gelata di prima mattina fa affiorare / una trama prima invisibile di / bianche ragnatele che legano insieme i fili d’erba.” Con simili correlativi oggettivi, Il manuale dell’immigrazione coglie la natura tragica di queste esistenze attraverso il giardino del giudice, il miele prodotto da una coppia di esuli, la carta dei documenti di un caso legale, o la cabina telefonica dove Arjan si è recato per 17 anni per chiamare il Ministero e sapere dell’iter della sua domanda d’asilo, “nell’odore di fumo rancido e di vuoto, / sul pavimento di cemento sporco; / le dita intrecciate / al filo serpentino di plastica / che facevano ruotare il disco metallico”; la cabina è oggi fuori servizio, “culla nera / nel suo sepolcro”. Suicidi, attese lunghe 17 anni e gli altri dettagli spaventosi di questi versi non sono iperboli poetiche, ma fatti ben noti sulla questione migratoria britannica, che Smith ha raccolto durante il suo servizio presso lo sportello per immigrati nella zona di Wembley. Nella Postfazione, Triulzi parla giustamente di “come gli attuali dispositivi anti-immigrazione nella maggior parte dei paesi europei agiscano spesso contro il senso stesso del diritto (…) producendo palesi ingiustizie” dove “l’assurdo dilaga e rende feroce la burocrazia.” La cabina di Arjan, quindi, incarna il limbo kafkiano e la morte decretata dalle istituzioni, mettendo in primo piano il ruolo della poesia nel rappresentare la complessa umanità di queste vite, aldilà del sentimentalismo dei media. Gli anni dopo la prima pubblicazione del volume, poi, hanno reso Il manuale di Smith sempre più urgente: si pensi alla politica nota come ‘ambiente ostile’ di Theresa May, che ha continuato a criminalizzare i migranti; al ‘Windrush scandal’ e alle deportazioni di cittadini che vivevano nel Regno Unito anche da più di 50 anni; al nuovo Ministro dell’Interno Priti Patel, pronta a deportare vittime di traffico di esseri umani e tortura. Lo stile di Smith non si limita all’utilizzo dei correlativi oggettivi. Talvolta il tenore della metafora, cioè il soggetto di cui parla, è solo un lieve accenno, molto tangenziale ai versi. In “Fortuna”, ad esempio, un’improvvisa nevicata blocca l’aereo che avrebbe dovuto deportare il signor Owusu, e l’attivista che aveva cercato di bloccarne la deportazione inizia a ripensare al passato della sua famiglia: “Gli scarponi scricchiolano e stridono nello spesso silenzio / di questi sentieri di campagna, / di nuovo tranquilli come quando mia madre e suo padre, / sfollati dalle bombe di Londra,” andavano a pescare; una volta pescarono un grande persico che venne poi ributtato in fiume, e l’analogia non espressa con il migrante viene istantanea. Sottotraccia, però, c’è anche l’angoscia del pericolo strisciante, l’allusione a uno stato di guerra perenne mai del tutto risolto. L’autrice si spinge ancora oltre in alcune poesie, forse le più originali della raccolta, dove il tenore della metafora è quasi del tutto assente, e i versi sono dominati da immagini apparentemente slegate dall’immigrazione, come nel caso de “L’addetto alle espulsioni”, dove il protagonista cura il proprio giardino: “Faccio leva col forcone / e sento lo strappo e la resistenza delle radici. / Devo ripulire questa zolla / farmi coraggio e tirar fuori / una fioritura di fiori perfetti.” Il compito di tracciare il nesso con la questione migratoria spetta al lettore. E il merito va a Caroline Smith, che in questo modo ci dimostra che i migranti e le loro storie sono sempre parte di ciò che noi siamo, indipendentemente da ogni volontà, consapevolezza o apparenza.

Nell'odore di fumo rancido e di vuoto

Deandrea Pietro
2021-01-01

Abstract

Nel domandarsi come difendere un richiedente asilo e “cogliere la complessità del caso”, un avvocato sogna di riuscirci grazie agli “arabeschi giuridici che valicano frontiere, / ampliando il quadro fuori dalla cornice.” La chiave di volta di queste poesie è proprio la maniera in cui Caroline Smith cerca di ampliare il quadro e decentrare la prospettiva, per raccontare le vite dei migranti in Gran Bretagna e di chi se ne occupa. Come sottolinea Splendore nella sua Introduzione, il primo passo è “rinunciare al ruolo convenzionale dell’io poetico” per concentrarsi sul personaggio: uno per ogni poesia, in una sorta di Spoon River. Il secondo passo è concretizzare la situazione attraverso un oggetto o un luogo che, scrive sempre Splendore, diventano “figure di collegamento con la zona più oscura e profonda dei suoi protagonisti”. Il giudice che viene a sapere dei suicidi dopo la sua sentenza di deportazione, per esempio, “fu come se si fosse svegliato / e avesse scoperto di essere / un intruso in casa sua”; tormentato dai dubbi, comincia a vedere del senso in ciò che prima gli appariva assurdo, “come una gelata di prima mattina fa affiorare / una trama prima invisibile di / bianche ragnatele che legano insieme i fili d’erba.” Con simili correlativi oggettivi, Il manuale dell’immigrazione coglie la natura tragica di queste esistenze attraverso il giardino del giudice, il miele prodotto da una coppia di esuli, la carta dei documenti di un caso legale, o la cabina telefonica dove Arjan si è recato per 17 anni per chiamare il Ministero e sapere dell’iter della sua domanda d’asilo, “nell’odore di fumo rancido e di vuoto, / sul pavimento di cemento sporco; / le dita intrecciate / al filo serpentino di plastica / che facevano ruotare il disco metallico”; la cabina è oggi fuori servizio, “culla nera / nel suo sepolcro”. Suicidi, attese lunghe 17 anni e gli altri dettagli spaventosi di questi versi non sono iperboli poetiche, ma fatti ben noti sulla questione migratoria britannica, che Smith ha raccolto durante il suo servizio presso lo sportello per immigrati nella zona di Wembley. Nella Postfazione, Triulzi parla giustamente di “come gli attuali dispositivi anti-immigrazione nella maggior parte dei paesi europei agiscano spesso contro il senso stesso del diritto (…) producendo palesi ingiustizie” dove “l’assurdo dilaga e rende feroce la burocrazia.” La cabina di Arjan, quindi, incarna il limbo kafkiano e la morte decretata dalle istituzioni, mettendo in primo piano il ruolo della poesia nel rappresentare la complessa umanità di queste vite, aldilà del sentimentalismo dei media. Gli anni dopo la prima pubblicazione del volume, poi, hanno reso Il manuale di Smith sempre più urgente: si pensi alla politica nota come ‘ambiente ostile’ di Theresa May, che ha continuato a criminalizzare i migranti; al ‘Windrush scandal’ e alle deportazioni di cittadini che vivevano nel Regno Unito anche da più di 50 anni; al nuovo Ministro dell’Interno Priti Patel, pronta a deportare vittime di traffico di esseri umani e tortura. Lo stile di Smith non si limita all’utilizzo dei correlativi oggettivi. Talvolta il tenore della metafora, cioè il soggetto di cui parla, è solo un lieve accenno, molto tangenziale ai versi. In “Fortuna”, ad esempio, un’improvvisa nevicata blocca l’aereo che avrebbe dovuto deportare il signor Owusu, e l’attivista che aveva cercato di bloccarne la deportazione inizia a ripensare al passato della sua famiglia: “Gli scarponi scricchiolano e stridono nello spesso silenzio / di questi sentieri di campagna, / di nuovo tranquilli come quando mia madre e suo padre, / sfollati dalle bombe di Londra,” andavano a pescare; una volta pescarono un grande persico che venne poi ributtato in fiume, e l’analogia non espressa con il migrante viene istantanea. Sottotraccia, però, c’è anche l’angoscia del pericolo strisciante, l’allusione a uno stato di guerra perenne mai del tutto risolto. L’autrice si spinge ancora oltre in alcune poesie, forse le più originali della raccolta, dove il tenore della metafora è quasi del tutto assente, e i versi sono dominati da immagini apparentemente slegate dall’immigrazione, come nel caso de “L’addetto alle espulsioni”, dove il protagonista cura il proprio giardino: “Faccio leva col forcone / e sento lo strappo e la resistenza delle radici. / Devo ripulire questa zolla / farmi coraggio e tirar fuori / una fioritura di fiori perfetti.” Il compito di tracciare il nesso con la questione migratoria spetta al lettore. E il merito va a Caroline Smith, che in questo modo ci dimostra che i migranti e le loro storie sono sempre parte di ciò che noi siamo, indipendentemente da ogni volontà, consapevolezza o apparenza.
2021
XXXVIII
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immigrazione, poesia britannica, rifugiati, richiedenti asilo
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1788399
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