La recente scienza giuridica italiana ritiene che si stia oggi assistendo al declino del diritto. Più esattamente al declino di una concezione del diritto: quella ancorata all’imprescindibilità, nella produzione del diritto, del ruolo del legislatore. Alla crisi della legislazione, dovuta alla sua entropia, alla constatazione di un diffuso “scetticismo sulle regole”, corrisponde il sorgere di opposte tendenze che riconoscono un ampio margine al ruolo e alla interpretazione giurisprudenziale. Ciò che questo libro vorrebbe tentare di ricostruire è la cultura giuridica che di quel cognitivismo era portatrice e il modo in cui gli stessi studiosi sostenitori dell’impianto positivistico concepivano se stessi. E il punto di vista che vorrebbe guidare la ricostruzione storica è orientato a mostrare come la “politica di disciplina” perseguita nei confronti del potere giudiziario fosse una strategia istituzionale lucidissima del giuspositivismo: la vincolatività del diritto scritto doveva essere perseguita anche attraverso la positivizzazione di quelle che sono chiamate le “norme sulle norme”, ossia di quelle regole che ineriscono alla produzione del diritto. L’esigenza di chiarire l’impianto concettuale sul quale si sarebbe risolta la tensione tra potere legislativo e potere giudiziario spiega la preferenza a trattare per primo il tema della interpretazione e della positivizzazione delle regole interpretative (primo capitolo). Il discorso sulla indispensabilità, superfluità o pericolosità di una disciplina legale della interpretazione - ossia, di regole scritte che vincolassero l’interprete, e quindi il giudice, nel suo percorso interpretativo – permette di rilevare (almeno) due dati incontestabili: che la necessità di circoscrivere – e tenere quindi sotto controllo - l’attività giurisdizionale rappresentava un fine comune, condiviso anche da coloro i quali si opponevano, per ragioni diverse, alla positivizzazione di tali regole; e che la biunivocità disposizione-norma (ossia la corrispondenza a una disposizione di una sola norma) fosse dagli stessi esponenti del giuspositivismo superato, ancor prima che questo superamento fosse da Kelsen teorizzato. La ricostruzione dei fattori qualificanti le scuole di diritto che influenzarono la dottrina giuridica italiana dell’epoca – esegetica, storica e del diritto libero -, permette inoltre di chiarire la concezione eminentemente cognitiva della interpretazione, ossia come attività volta a ricercare il significato “corretto” di un diritto comunque precostituito. Poste le fondamenta della concezione cognitivistica del diritto, si affronta il tema della sua produzione, nel senso della individuazione non delle singole tipologie di fonti-atto del diritto, ma dei soggetti cui spettava creare diritto (secondo capitolo). In quest’ottica, la previsione di esplicite regole legislative sulla successione delle leggi nel tempo e sulla non retroattività delle stesse, il fatto che venissero concepite e costruite come regole di automatica applicazione, che non lasciassero dunque alcuna facoltà al potere giudiziario nella determinazione della validità e della efficacia della legge, sono anch’essi sintomi di un processo di assolutizzazione della oggettività delle fonti. Non senza flessioni, però: l’influenza dell’insegnamento storicistico, il riconoscimento, accanto all’anima formalista, di un’anima materialista – o dinamica – del diritto, riaffiorano nei dibattiti sul ruolo da riconoscere alle norme consuetudinarie nel loro rapporto con la legge. La valorizzazione della dimensione oggettiva del diritto – o il declino del soggettivismo legislativo – acquista rilevanza anche da un altro punto di vista: quello della vincolatività delle regole sulla produzione del diritto non solo per il potere giudiziario, ma anche per lo stesso titolare del potere legislativo (terzo capitolo). Non ci si sofferma sulla questione della natura costituzionale o non costituzionale, rigida o flessibile dello Statuto albertino, quanto su quella della possibilità che la legge potesse essere sottoposta ad accertamento dell’esistenza di limiti sotto condizione di invalidità, della natura di questi limiti e dell’organo competente a sindacare questa validità. La percezione della prescrittività, anche per il legislatore, del contenuto normativo delle disposizioni statutarie, e quindi delle norme sulle norme - pur in assenza di strumenti di giustizia costituzionale -, funge da completamento del passaggio da una concezione soggettiva del diritto a una sua concezione oggettiva. La comprensione dei tratti essenziali della dottrina cognitivistica del diritto sostenuta dal positivismo permette di concludere nel senso che essa non escludeva il riconoscimento di un ruolo alla scienza giuridica. Ciò che però intendeva evitare era la deriva cui tendenze realiste, più o meno scettiche, avrebbero condotto. Una deriva che si intendeva e che si intende ancora oggi evitare – e in ciò trova spiegazione la resistenza agli attacchi mossi al positivismo giuridico e la permanenza della sua vitalità –, ma attraverso due vie: sul versante legislativo, la positivizzazione dello stesso lato materiale e la sua vincolatività, attraverso le norme sulla validità, anche per il legislatore; sul versante giudiziario, il vincolo del legame al testo, la pretesa che il giudice, nello svolgimento della riconosciutagli funzione interpretativa, compia ogni sforzo per addivenire ad una interpretazione che alla sua responsabilità appaia “vera”.

La neutralizzazione del potere giudiziario. Regole sulla interpretazione e sulla produzione del diritto nella cultura giuridica italiana tra Ottocento e Novecento

MARCENO', Valeria Giusi Francesca
2009-01-01

Abstract

La recente scienza giuridica italiana ritiene che si stia oggi assistendo al declino del diritto. Più esattamente al declino di una concezione del diritto: quella ancorata all’imprescindibilità, nella produzione del diritto, del ruolo del legislatore. Alla crisi della legislazione, dovuta alla sua entropia, alla constatazione di un diffuso “scetticismo sulle regole”, corrisponde il sorgere di opposte tendenze che riconoscono un ampio margine al ruolo e alla interpretazione giurisprudenziale. Ciò che questo libro vorrebbe tentare di ricostruire è la cultura giuridica che di quel cognitivismo era portatrice e il modo in cui gli stessi studiosi sostenitori dell’impianto positivistico concepivano se stessi. E il punto di vista che vorrebbe guidare la ricostruzione storica è orientato a mostrare come la “politica di disciplina” perseguita nei confronti del potere giudiziario fosse una strategia istituzionale lucidissima del giuspositivismo: la vincolatività del diritto scritto doveva essere perseguita anche attraverso la positivizzazione di quelle che sono chiamate le “norme sulle norme”, ossia di quelle regole che ineriscono alla produzione del diritto. L’esigenza di chiarire l’impianto concettuale sul quale si sarebbe risolta la tensione tra potere legislativo e potere giudiziario spiega la preferenza a trattare per primo il tema della interpretazione e della positivizzazione delle regole interpretative (primo capitolo). Il discorso sulla indispensabilità, superfluità o pericolosità di una disciplina legale della interpretazione - ossia, di regole scritte che vincolassero l’interprete, e quindi il giudice, nel suo percorso interpretativo – permette di rilevare (almeno) due dati incontestabili: che la necessità di circoscrivere – e tenere quindi sotto controllo - l’attività giurisdizionale rappresentava un fine comune, condiviso anche da coloro i quali si opponevano, per ragioni diverse, alla positivizzazione di tali regole; e che la biunivocità disposizione-norma (ossia la corrispondenza a una disposizione di una sola norma) fosse dagli stessi esponenti del giuspositivismo superato, ancor prima che questo superamento fosse da Kelsen teorizzato. La ricostruzione dei fattori qualificanti le scuole di diritto che influenzarono la dottrina giuridica italiana dell’epoca – esegetica, storica e del diritto libero -, permette inoltre di chiarire la concezione eminentemente cognitiva della interpretazione, ossia come attività volta a ricercare il significato “corretto” di un diritto comunque precostituito. Poste le fondamenta della concezione cognitivistica del diritto, si affronta il tema della sua produzione, nel senso della individuazione non delle singole tipologie di fonti-atto del diritto, ma dei soggetti cui spettava creare diritto (secondo capitolo). In quest’ottica, la previsione di esplicite regole legislative sulla successione delle leggi nel tempo e sulla non retroattività delle stesse, il fatto che venissero concepite e costruite come regole di automatica applicazione, che non lasciassero dunque alcuna facoltà al potere giudiziario nella determinazione della validità e della efficacia della legge, sono anch’essi sintomi di un processo di assolutizzazione della oggettività delle fonti. Non senza flessioni, però: l’influenza dell’insegnamento storicistico, il riconoscimento, accanto all’anima formalista, di un’anima materialista – o dinamica – del diritto, riaffiorano nei dibattiti sul ruolo da riconoscere alle norme consuetudinarie nel loro rapporto con la legge. La valorizzazione della dimensione oggettiva del diritto – o il declino del soggettivismo legislativo – acquista rilevanza anche da un altro punto di vista: quello della vincolatività delle regole sulla produzione del diritto non solo per il potere giudiziario, ma anche per lo stesso titolare del potere legislativo (terzo capitolo). Non ci si sofferma sulla questione della natura costituzionale o non costituzionale, rigida o flessibile dello Statuto albertino, quanto su quella della possibilità che la legge potesse essere sottoposta ad accertamento dell’esistenza di limiti sotto condizione di invalidità, della natura di questi limiti e dell’organo competente a sindacare questa validità. La percezione della prescrittività, anche per il legislatore, del contenuto normativo delle disposizioni statutarie, e quindi delle norme sulle norme - pur in assenza di strumenti di giustizia costituzionale -, funge da completamento del passaggio da una concezione soggettiva del diritto a una sua concezione oggettiva. La comprensione dei tratti essenziali della dottrina cognitivistica del diritto sostenuta dal positivismo permette di concludere nel senso che essa non escludeva il riconoscimento di un ruolo alla scienza giuridica. Ciò che però intendeva evitare era la deriva cui tendenze realiste, più o meno scettiche, avrebbero condotto. Una deriva che si intendeva e che si intende ancora oggi evitare – e in ciò trova spiegazione la resistenza agli attacchi mossi al positivismo giuridico e la permanenza della sua vitalità –, ma attraverso due vie: sul versante legislativo, la positivizzazione dello stesso lato materiale e la sua vincolatività, attraverso le norme sulla validità, anche per il legislatore; sul versante giudiziario, il vincolo del legame al testo, la pretesa che il giudice, nello svolgimento della riconosciutagli funzione interpretativa, compia ogni sforzo per addivenire ad una interpretazione che alla sua responsabilità appaia “vera”.
2009
Jovene
1
188
9788824318938
Interpretazione; validità; abrogazione; dottrina fine ottocento
V. MARCENO'
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
La_neutralizzazione_del_potere_giudiziario_ParteI.pdf

Accesso riservato

Tipo di file: POSTPRINT (VERSIONE FINALE DELL’AUTORE)
Dimensione 4.89 MB
Formato Adobe PDF
4.89 MB Adobe PDF   Visualizza/Apri   Richiedi una copia
La_neutralizzazione_del_potere_giudiziario_ParteII.pdf

Accesso riservato

Tipo di file: POSTPRINT (VERSIONE FINALE DELL’AUTORE)
Dimensione 6.81 MB
Formato Adobe PDF
6.81 MB Adobe PDF   Visualizza/Apri   Richiedi una copia

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/64082
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact