Il lavoro dedicato all’Abuso d’ufficio costituisce un tentativo di recuperare la nozione di abuso nell’ambito di una fattispecie che, dopo la riforma legislativa del 1997, è priva di ogni esplicito riferimento testuale al carattere abusivo della condotta tipica. Il saggio prospetta una originale soluzione interpretativa dell’art. 323 c.p., intesa a non risolvere riduttivamente l’abuso di potere nella violazione di doveri (il che -sul piano sistematico- è incompatibile con l’art. 61 n. 9 c.p.) e ad escludere la configurazione di un ‘abuso senza abuso’, quale sembrerebbe emergere, in prima approssimazione, da una lettura esclusivamente letterale del testo (il che risolverebbe la ratio legis in una generica tutela dell’obiettività e del buon andamento della Pubblica Amministrazione). Il recupero della nozione di ‘abusività’ della condotta viene prospettato coniugando la rubrica dell’articolo al predicato di illiceità speciale, l’ingiustizia, che deve necessariamente accompagnare il vantaggio o il danno, costituenti alternativamente il risultato naturalistico del delitto. Perciò, contrariamente ad un luogo comune assai répandu, l’abuso continua a costituire un requisito implicito della condotta, poiché è proprio la strumentalizzazione del potere che, rendendo ingiusto il risultato vantaggioso o dannoso, sostanzia l’evento giuridico del delitto. Questa lettura non soltanto ottempera al principio di conservazione del materiale normativo (il requisito dell’ingiustizia del risultato, se inteso come semplice espressione di ‘illiceità espressa’ o se ricondotto al brocardo: non iure et contra ius, verrebbe svuotato e vanificato), ma consente altresì il recupero della continuità storica dell’incriminazione. Alla luce della coppia concettuale: abusività (della condotta) – ingiustizia (del risultato naturalistico), l’evento offensivo della fattispecie non si risolve nella mera realizzazione di una condotta (attiva od omissiva) antidoverosa, accompagnata dal conseguimento del danno o del vantaggio, intenzionalmente perseguiti, ma postula, sul piano oggettivo, lo sviamento delle funzioni o del servizio esercitato e, sul piano soggettivo, la consapevolezza che l’esito perseguito intenzionalmente si attua mediante quella strumentalizzazione del potere che costituisce il quid proprium delle fattispecie di abuso.
Abuso d’ufficio
LICCI, Giorgio
2012-01-01
Abstract
Il lavoro dedicato all’Abuso d’ufficio costituisce un tentativo di recuperare la nozione di abuso nell’ambito di una fattispecie che, dopo la riforma legislativa del 1997, è priva di ogni esplicito riferimento testuale al carattere abusivo della condotta tipica. Il saggio prospetta una originale soluzione interpretativa dell’art. 323 c.p., intesa a non risolvere riduttivamente l’abuso di potere nella violazione di doveri (il che -sul piano sistematico- è incompatibile con l’art. 61 n. 9 c.p.) e ad escludere la configurazione di un ‘abuso senza abuso’, quale sembrerebbe emergere, in prima approssimazione, da una lettura esclusivamente letterale del testo (il che risolverebbe la ratio legis in una generica tutela dell’obiettività e del buon andamento della Pubblica Amministrazione). Il recupero della nozione di ‘abusività’ della condotta viene prospettato coniugando la rubrica dell’articolo al predicato di illiceità speciale, l’ingiustizia, che deve necessariamente accompagnare il vantaggio o il danno, costituenti alternativamente il risultato naturalistico del delitto. Perciò, contrariamente ad un luogo comune assai répandu, l’abuso continua a costituire un requisito implicito della condotta, poiché è proprio la strumentalizzazione del potere che, rendendo ingiusto il risultato vantaggioso o dannoso, sostanzia l’evento giuridico del delitto. Questa lettura non soltanto ottempera al principio di conservazione del materiale normativo (il requisito dell’ingiustizia del risultato, se inteso come semplice espressione di ‘illiceità espressa’ o se ricondotto al brocardo: non iure et contra ius, verrebbe svuotato e vanificato), ma consente altresì il recupero della continuità storica dell’incriminazione. Alla luce della coppia concettuale: abusività (della condotta) – ingiustizia (del risultato naturalistico), l’evento offensivo della fattispecie non si risolve nella mera realizzazione di una condotta (attiva od omissiva) antidoverosa, accompagnata dal conseguimento del danno o del vantaggio, intenzionalmente perseguiti, ma postula, sul piano oggettivo, lo sviamento delle funzioni o del servizio esercitato e, sul piano soggettivo, la consapevolezza che l’esito perseguito intenzionalmente si attua mediante quella strumentalizzazione del potere che costituisce il quid proprium delle fattispecie di abuso.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.