Malgrado le molte aperture dottrinali il dolo omissivo non ha raggiunto finora uno stabile riconoscimento giurisprudenziale. La tendenza prevalente è piuttosto quella di mimetizzarlo entro il “cliché” del dolo commissivo: la reticenza non potrebbe degenerare in raggiro se non quando accompagnata da un “quid pluris” che infonda al silenzio attitudine decettiva; e questo qualcosa in più, non a caso, è spesso un comportamento attivo dello stesso ingannatore (quasi il dolo omissivo possa essere “vero” dolo solo quando omissivo non è). C’è però qualche segnale di cambiamento: forse per la pressione dei fatti, forse per una maggiore valorizzazione della buona fede nelle trattative, una recente giurisprudenza di legittimità ha rinunciato alla teorica del “quid pluris”. Pur nella brevità della motivazione – si fa implicito rinvio a valutazioni “caso per caso”, che hanno tutto il sapore del disimpegno – questa giurisprudenza gioca la carta degli oneri probatori: per ottenere l’annullamento la vittima del raggiro deve provare d’essere caduto in errore a causa del malizioso silenzio di controparte, responsabile d’aver alterato i processi formativi del suo consenso; ma quand’anche questo nesso eziologico fosse provato, il supposto ingannatore potrebbe sottrarsi all’annullamento dimostrando che, in luogo di controparte, nessun altro contraente sarebbe caduto in errore. Dunque una prova in concreto, che però lascia spazio ad una controprova in astratto. La distribuzione accorta degli oneri probatori può togliere dall’imbarazzo chi debba assegnare al dolo omissivo un qualche significato pratico; ma pare troppo poco per salutare la “fine dell’esilio”.
Il dolo omissivo nella giurisprudenza: fine dell’esilio?
FERRANTE, Edoardo
2008-01-01
Abstract
Malgrado le molte aperture dottrinali il dolo omissivo non ha raggiunto finora uno stabile riconoscimento giurisprudenziale. La tendenza prevalente è piuttosto quella di mimetizzarlo entro il “cliché” del dolo commissivo: la reticenza non potrebbe degenerare in raggiro se non quando accompagnata da un “quid pluris” che infonda al silenzio attitudine decettiva; e questo qualcosa in più, non a caso, è spesso un comportamento attivo dello stesso ingannatore (quasi il dolo omissivo possa essere “vero” dolo solo quando omissivo non è). C’è però qualche segnale di cambiamento: forse per la pressione dei fatti, forse per una maggiore valorizzazione della buona fede nelle trattative, una recente giurisprudenza di legittimità ha rinunciato alla teorica del “quid pluris”. Pur nella brevità della motivazione – si fa implicito rinvio a valutazioni “caso per caso”, che hanno tutto il sapore del disimpegno – questa giurisprudenza gioca la carta degli oneri probatori: per ottenere l’annullamento la vittima del raggiro deve provare d’essere caduto in errore a causa del malizioso silenzio di controparte, responsabile d’aver alterato i processi formativi del suo consenso; ma quand’anche questo nesso eziologico fosse provato, il supposto ingannatore potrebbe sottrarsi all’annullamento dimostrando che, in luogo di controparte, nessun altro contraente sarebbe caduto in errore. Dunque una prova in concreto, che però lascia spazio ad una controprova in astratto. La distribuzione accorta degli oneri probatori può togliere dall’imbarazzo chi debba assegnare al dolo omissivo un qualche significato pratico; ma pare troppo poco per salutare la “fine dell’esilio”.File | Dimensione | Formato | |
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