Dopo aver ricostruito, nelle premesse storico-filosofiche, il dibattito intorno alle ambiguità e alle cause della minorità culturale del principio di fraternità, lo studio ripercorre, da un lato, la letteratura che, a partire dalla proclamazione rivoluzionaria della fraternité républicaine, ha evocato, adesivamente o criticamente, la relativa formula nel corso del XIX secolo; dall'altro, le teorie e/o dottrine che, in diverse epoche, hanno tentato di rispondere alla questione centrale del diritto costituzionale - come si integra il pluralismo sociale in unità politica, e, dunque, come si mantiene l'unità del corpo politico - invocando l'esistenza di un principio, variamente denominato, in forza del quale gli uomini sarebbero reciprocamente legati - per inclinazione naturale o per sforzo razionale - da un vincolo di collaborazione, che si manifesterebbe attraverso comportamenti benevoli, oblativi. La classificazione proposta, che accosta teorie e/o dottrine anche molto lontane fra loro, dimostra come i loro sostenitori, invocando o evocando un tale principio, presuppongano sempre una specifica concezione di costituzione, nonché una specifica concezione del rapporto tra costituzione e suo contenuto. Le difficoltà interpretative e le ambiguità sottese ai discorsi pronunciati intorno al principio di fraternità possono forse essere spiegate alla luce della seguente considerazione: le teorie e/o dottrine che si riferiscono al principio di fraternità quale principio costituzionale fondante la convivenza umana sottintendono un giudizio ottimistico rispetto alla natura buona dell'uomo, ossia rispetto alla sua naturale disposizione a costruire relazioni sociali improntate alla benevolenza, alla giustizia, alla pace; coloro che, al contrario, degradano il principio in esame a mero obbligo morale, utile sul piano dei sentimenti, ma inefficace sul piano politico e giuridico, spesso condividono l'idea di una condizione naturale dell'uomo quale belva tra le belve. Al quesito antropologico di fondo intorno alla naturale, istintiva, amicizia o inimicizia tra gli uomini, i discorsi favorevoli alla fraternità presuppongono sempre (o, almeno, in massima parte) un'antropologia positiva, che pone l'accento sulla natura buona dell'uomo. Ora, anche al fine di spiegare l'ossimoro che compare nel sottotitolo del libro, si vuole sottolineare che lo studio qui presentato intende dimostrare che è proprio la simmetria sopra indicata - fraternità/antropologia positiva - che non si può condividere: se è vero che tutta la storia del pensiero occidentale può essere letta alla luce delle sue due grandi tradizioni - quella, per così dire, conflittualistica e quella solidaristica: quella per la quale l'uomo è naturalmente cattivo e quella per la quale l'uomo è naturalmente buono - in realtà tutte le teorie politiche - comprese quelle diffusamente ascritte alla tradizione conflittualistica - fino alla fine dell'Ottocento, ossia fino all'avvento delle teorie irrazionalistiche che si fondano sul primato della forza e delle passioni, concordano nel considerare l'uomo, se non buono per natura, comunque in grado, con uno sforzo razionale, artificiale, di costruire un ordine buono, ossia di uscire dalla sua condizione naturale di belva tra le belve, abbandonando il "potere delle passioni, la guerra, la paura, la miseria, la bruttura, la solitudine, la barbarie, l'ignoranza, la crudeltà", per realizzare, nello stato e nel diritto, "il potere della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, lo splendore, la società, la raffinatezza, le scienze, la benevolenza" (T. Hobbes, De cive, X, 1). Non sembra così importante allora sciogliere il dilemma rispetto alla questione della originaria amicizia o inimicizia fra gli uomini e la loro naturale inclinazione alla concordia o al conflitto: ciò che conta sembra piuttosto essere la fiducia che alcune teorie, compresa quella hobbesiana, riconoscono nella capacità dell'uomo - se si vuole: capacità spontanea, per coloro per i quali l'uomo è nativamente buono, capacità riflessiva, per coloro per i quali l'uomo è naturalmente cattivo - di costituire un ordine buono (naturale o artificiale). E' sulla base di tali premesse che si spiega allora l'ossimoro della "fraternità conflittuale". Tra le diverse accezioni della fraternità che sono classificate nel capitolo secondo sulla base dei differenti modi d'intendere il concetto di costituzione e il rapporto tra quest'ultima e il suo contenuto, la "fraternità conflittuale" deve essere intesa quale norma costitutiva, prescrittiva, di un ordine (che nella realtà non è), in quanto impone agli uomini di comportarsi "come se" fossero fratelli, proprio perché nella realtà non lo sono. Per questo la fraternità racchiude in sè l'idea di "limite": è l'espressione con la quale i rivoluzionari, dopo aver proclamato la libertà e l'eguaglianza, vollero indicare, esplicitando nel motto rivoluzionario ciò che era stato sotteso a tutte le teorie morali precedenti, l'unico modo possibile per instaurare nella realtà i diritti che da quei due principi discendono. Come si approfondisce nel testo, questa interpretazione del motto rivoluzionario si deve più alla lettura che ne è stata fatta dagli storici nella prima metà dell'Ottocento, che non dai diretti protagonisti, che fecero della fraternità un impiego diverso. Essa è tuttavia indice del fatto che "dal mito della cacciata dal paradiso terrestre a quello di Lucifero precipitato negli inferi, dal Contratto sociale a Totem e tabù tutta la storia del pensiero occidentale dimostra che la nostra società è consapevole di essere fondata sulla costruzione e sulla accettazione di limiti a quella che i filosofi chiamano la libertà naturale" (M. Dogliani, Introduzione a T. Mann, La legge, Milano, 1997, p. 10). In fondo, la civilizzazione non è nient'altro che la disposizione degli uomini al sacrificio di una parte del desiderio, al contenimento delle loro passioni sfrenate (e il contrattualismo, compreso quello hobbesiano, è la versione razionale di tale civilizzazione). Il percorso culturale che il principio di fraternità ha dovuto compiere attraverso i secoli è stato certo assai più tortuoso di quello della libertà e dell'eguaglianza. Tuttavia, nel corso della storia, esso ha lasciato delle tracce, dei segni inconfutabili e, nell'elaborazione culturale del secondo dopoguerra, si è infine venuto a fondere con la problematica costituzionale, dal momento che si è rivelato elemento costitutivo senza il quale gli ordinamenti non possono esistere. Nel terzo capitolo si è tentato di verificare come la concezione del principio di "fraternità conflittuale", indicata come la più confacente al costituzionalismo moderno, abbia implicazioni giuridico-costituzionali di estremo rilievo, che coinvolgono luoghi classici nello studio del diritto costituzionale, e che riguardano, in primo luogo, la questione della "amministrazione" dei diritti nello stato costituzionale, la loro interpretazione, la definizione del loro contenuto e dei mezzi per esercitarli. Attraverso un adattamento del "principio di differenza" di Rawls, il lavoro ha inteso dimostrare come il principio di "fraternità conflittuale" sia giustiziabile in sede di controllo di ragionevolezza delle leggi da parte del giudice costituzionale, attraverso il c.d. criterio del mildestes Mittel. Le argomentazioni retoriche impiegate dalla corte costituzionale in sede di controllo della ragionevolezza dei bilanciamenti politici compiuti dal legislatore, dimostrano che quello che nel testo è indicato con l'espressione principio di "fraternità conflittuale" è effettivamente impiegato nel nostro ordinamento come parametro di legittimità costituzionale delle leggi. Rispetto al dibattito teorico sintetizzato nella prima parte del lavoro, intorno alla questione della validità di un tale principio nel nostro ordinamento positivo, è possibile allora sostenere, in conclusione, che nel nostro ordinamento positivo è valido un principio di fraternità, nella sua accezione conflittuale, in quanto effettivo. Il lavoro ha inteso disvelare gli usi (anche inconsapevoli) del principio di fraternità nel nostro ordinamento: e con ciò si è voluto dimostrare che, lungi dall'essere il corollario di una concezione ottimistica degli uomini e del loro stare insieme, il suo significato richiama al contrario la necessità continua dell'imposizione dall'esterno di un dovere di avvicinamento verso l'Altro, in quanto irriducibilmente diverso, nemico, nella consapevolezza che questo sia l'unico modo per consentire una convivenza nell'epoca presente. Un ordinamento costituzionale non potrebbe fare a meno della fraternità proprio perché i protagonisti concreti dei conflitti sarebbero portati, una volta conquistato il potere, a far soccombere il nemico. Il volto che la fraternità assume nel diritto costituzionale contemporaneo è dunque quello del "limite" al principio maggioritario e della difesa contro gli atti di schiacciamento, di rottura, nel quale quel principio potrebbe tradursi.
Costituzione e fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: "come se" fossimo fratelli
MASSA PINTO, Ilenia
2011-01-01
Abstract
Dopo aver ricostruito, nelle premesse storico-filosofiche, il dibattito intorno alle ambiguità e alle cause della minorità culturale del principio di fraternità, lo studio ripercorre, da un lato, la letteratura che, a partire dalla proclamazione rivoluzionaria della fraternité républicaine, ha evocato, adesivamente o criticamente, la relativa formula nel corso del XIX secolo; dall'altro, le teorie e/o dottrine che, in diverse epoche, hanno tentato di rispondere alla questione centrale del diritto costituzionale - come si integra il pluralismo sociale in unità politica, e, dunque, come si mantiene l'unità del corpo politico - invocando l'esistenza di un principio, variamente denominato, in forza del quale gli uomini sarebbero reciprocamente legati - per inclinazione naturale o per sforzo razionale - da un vincolo di collaborazione, che si manifesterebbe attraverso comportamenti benevoli, oblativi. La classificazione proposta, che accosta teorie e/o dottrine anche molto lontane fra loro, dimostra come i loro sostenitori, invocando o evocando un tale principio, presuppongano sempre una specifica concezione di costituzione, nonché una specifica concezione del rapporto tra costituzione e suo contenuto. Le difficoltà interpretative e le ambiguità sottese ai discorsi pronunciati intorno al principio di fraternità possono forse essere spiegate alla luce della seguente considerazione: le teorie e/o dottrine che si riferiscono al principio di fraternità quale principio costituzionale fondante la convivenza umana sottintendono un giudizio ottimistico rispetto alla natura buona dell'uomo, ossia rispetto alla sua naturale disposizione a costruire relazioni sociali improntate alla benevolenza, alla giustizia, alla pace; coloro che, al contrario, degradano il principio in esame a mero obbligo morale, utile sul piano dei sentimenti, ma inefficace sul piano politico e giuridico, spesso condividono l'idea di una condizione naturale dell'uomo quale belva tra le belve. Al quesito antropologico di fondo intorno alla naturale, istintiva, amicizia o inimicizia tra gli uomini, i discorsi favorevoli alla fraternità presuppongono sempre (o, almeno, in massima parte) un'antropologia positiva, che pone l'accento sulla natura buona dell'uomo. Ora, anche al fine di spiegare l'ossimoro che compare nel sottotitolo del libro, si vuole sottolineare che lo studio qui presentato intende dimostrare che è proprio la simmetria sopra indicata - fraternità/antropologia positiva - che non si può condividere: se è vero che tutta la storia del pensiero occidentale può essere letta alla luce delle sue due grandi tradizioni - quella, per così dire, conflittualistica e quella solidaristica: quella per la quale l'uomo è naturalmente cattivo e quella per la quale l'uomo è naturalmente buono - in realtà tutte le teorie politiche - comprese quelle diffusamente ascritte alla tradizione conflittualistica - fino alla fine dell'Ottocento, ossia fino all'avvento delle teorie irrazionalistiche che si fondano sul primato della forza e delle passioni, concordano nel considerare l'uomo, se non buono per natura, comunque in grado, con uno sforzo razionale, artificiale, di costruire un ordine buono, ossia di uscire dalla sua condizione naturale di belva tra le belve, abbandonando il "potere delle passioni, la guerra, la paura, la miseria, la bruttura, la solitudine, la barbarie, l'ignoranza, la crudeltà", per realizzare, nello stato e nel diritto, "il potere della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, lo splendore, la società, la raffinatezza, le scienze, la benevolenza" (T. Hobbes, De cive, X, 1). Non sembra così importante allora sciogliere il dilemma rispetto alla questione della originaria amicizia o inimicizia fra gli uomini e la loro naturale inclinazione alla concordia o al conflitto: ciò che conta sembra piuttosto essere la fiducia che alcune teorie, compresa quella hobbesiana, riconoscono nella capacità dell'uomo - se si vuole: capacità spontanea, per coloro per i quali l'uomo è nativamente buono, capacità riflessiva, per coloro per i quali l'uomo è naturalmente cattivo - di costituire un ordine buono (naturale o artificiale). E' sulla base di tali premesse che si spiega allora l'ossimoro della "fraternità conflittuale". Tra le diverse accezioni della fraternità che sono classificate nel capitolo secondo sulla base dei differenti modi d'intendere il concetto di costituzione e il rapporto tra quest'ultima e il suo contenuto, la "fraternità conflittuale" deve essere intesa quale norma costitutiva, prescrittiva, di un ordine (che nella realtà non è), in quanto impone agli uomini di comportarsi "come se" fossero fratelli, proprio perché nella realtà non lo sono. Per questo la fraternità racchiude in sè l'idea di "limite": è l'espressione con la quale i rivoluzionari, dopo aver proclamato la libertà e l'eguaglianza, vollero indicare, esplicitando nel motto rivoluzionario ciò che era stato sotteso a tutte le teorie morali precedenti, l'unico modo possibile per instaurare nella realtà i diritti che da quei due principi discendono. Come si approfondisce nel testo, questa interpretazione del motto rivoluzionario si deve più alla lettura che ne è stata fatta dagli storici nella prima metà dell'Ottocento, che non dai diretti protagonisti, che fecero della fraternità un impiego diverso. Essa è tuttavia indice del fatto che "dal mito della cacciata dal paradiso terrestre a quello di Lucifero precipitato negli inferi, dal Contratto sociale a Totem e tabù tutta la storia del pensiero occidentale dimostra che la nostra società è consapevole di essere fondata sulla costruzione e sulla accettazione di limiti a quella che i filosofi chiamano la libertà naturale" (M. Dogliani, Introduzione a T. Mann, La legge, Milano, 1997, p. 10). In fondo, la civilizzazione non è nient'altro che la disposizione degli uomini al sacrificio di una parte del desiderio, al contenimento delle loro passioni sfrenate (e il contrattualismo, compreso quello hobbesiano, è la versione razionale di tale civilizzazione). Il percorso culturale che il principio di fraternità ha dovuto compiere attraverso i secoli è stato certo assai più tortuoso di quello della libertà e dell'eguaglianza. Tuttavia, nel corso della storia, esso ha lasciato delle tracce, dei segni inconfutabili e, nell'elaborazione culturale del secondo dopoguerra, si è infine venuto a fondere con la problematica costituzionale, dal momento che si è rivelato elemento costitutivo senza il quale gli ordinamenti non possono esistere. Nel terzo capitolo si è tentato di verificare come la concezione del principio di "fraternità conflittuale", indicata come la più confacente al costituzionalismo moderno, abbia implicazioni giuridico-costituzionali di estremo rilievo, che coinvolgono luoghi classici nello studio del diritto costituzionale, e che riguardano, in primo luogo, la questione della "amministrazione" dei diritti nello stato costituzionale, la loro interpretazione, la definizione del loro contenuto e dei mezzi per esercitarli. Attraverso un adattamento del "principio di differenza" di Rawls, il lavoro ha inteso dimostrare come il principio di "fraternità conflittuale" sia giustiziabile in sede di controllo di ragionevolezza delle leggi da parte del giudice costituzionale, attraverso il c.d. criterio del mildestes Mittel. Le argomentazioni retoriche impiegate dalla corte costituzionale in sede di controllo della ragionevolezza dei bilanciamenti politici compiuti dal legislatore, dimostrano che quello che nel testo è indicato con l'espressione principio di "fraternità conflittuale" è effettivamente impiegato nel nostro ordinamento come parametro di legittimità costituzionale delle leggi. Rispetto al dibattito teorico sintetizzato nella prima parte del lavoro, intorno alla questione della validità di un tale principio nel nostro ordinamento positivo, è possibile allora sostenere, in conclusione, che nel nostro ordinamento positivo è valido un principio di fraternità, nella sua accezione conflittuale, in quanto effettivo. Il lavoro ha inteso disvelare gli usi (anche inconsapevoli) del principio di fraternità nel nostro ordinamento: e con ciò si è voluto dimostrare che, lungi dall'essere il corollario di una concezione ottimistica degli uomini e del loro stare insieme, il suo significato richiama al contrario la necessità continua dell'imposizione dall'esterno di un dovere di avvicinamento verso l'Altro, in quanto irriducibilmente diverso, nemico, nella consapevolezza che questo sia l'unico modo per consentire una convivenza nell'epoca presente. Un ordinamento costituzionale non potrebbe fare a meno della fraternità proprio perché i protagonisti concreti dei conflitti sarebbero portati, una volta conquistato il potere, a far soccombere il nemico. Il volto che la fraternità assume nel diritto costituzionale contemporaneo è dunque quello del "limite" al principio maggioritario e della difesa contro gli atti di schiacciamento, di rottura, nel quale quel principio potrebbe tradursi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.