Mentre scrivo questa recensione, Berlino inaugura un memoriale per gli oltre 500mila rom e sinti uccisi dal nazismo. L’evento può rappresentare un granello di consapevolezza in un’Europa dove l’antiziganismo è talmente diffuso da apparire, agli occhi della grande maggioranza, come naturale. Fino a pochi anni fa, in fondo, non esistevano molte ricerche sullo sterminio che in lingua romanés si definisce Porrajmos. Per chi volesse tuffarsi in una narrazione del popolo rom, invece, Figli dell’arcobaleno è un romanzo – senza mezzi termini ¬– travolgente. Memorabile il “Prologo”, che parte proprio da Birkenau: pur circondata dalla morte, la comunità rom riesce a celebrare la propria festa, e a non perdere l’anima. Todor e Zara riescono a far compiere tutti i riti per il loro neonato Branko, su cui le Urme, divinità del fato, pronunciano una enigmatica profezia. Trafugato miracolosamente dal campo di concentramento, nel 1978 il bimbo è diventato il trentenne Benedict, ingegnere e militare svizzero di successo. Alla morte dei genitori adottivi, questi inizia un doloroso percorso di riscoperta delle proprie radici, di come fosse stato rapito e ‘riabilitato’ con l’elettroshock dalle istituzioni elvetiche. E scopre anche il significato della profezia: ritrovare la perduta Bibbia Gitana, l’insieme delle tradizioni orali che un veggente aveva composto proprio a Birkenau, e condurre il popolo rom nella terra promessa, il Romanestan, per sfuggire a persecuzioni e assimilazioni. Figli dell’arcobaleno è un romanzo itinerante che percorre molti paesi europei fino agli anni ’90, quando il trionfo neoliberale e l’emergere dei nazionalismi portano a demonizzare ogni rifugiato e diverso, minacciando anche le comunità rom più stabilizzate: “Quel che l’Europa voleva davvero era una confederazione bianca; […] una confederazione dissanguata, di fatto, del suo stesso futuro; un Terzo Reich dei giorni nostri.” Farhi racconta l’impresa di Branko attraverso cruda realtà e sovrannaturale, ma l’etichetta di ‘realismo magico’ va stretta a questo romanzo. Ogni capitolo, infatti, è chiuso da un brano della Bibbia Gitana, intrisa di pace e tolleranza come la cultura rom: un testo sacro inclusivo, che abbraccia e trasforma monoteismi e politeismi di tutto il mondo, dove “non può esserci libertà, se non è libertà per tutti.” Abramo si immola al posto di Isacco, per esempio, e ciò fa piangere il dio supremo O Del: “voi due Mi avete insegnato che un Dio che pretende sangue va disobbedito. Guardate, Io sono un Dio capace di chiedere perdono – lo faccio adesso”. Questo mescolarsi di generi si fonde in un finale dove trama e Bibbia si intrecciano progressivamente “fino ad assumere”, scrive Saracino nell’Introduzione, “l’ampiezza e i toni di una grande, straordinaria epica moderna.” Un’epica finalmente tradotta (in modo eccellente) per il pubblico italiano, benché con un prezzo ingiustificabile. C’è da sperare venga letta anche da quel consigliere circoscrizionale di Torino che l’anno scorso ha invocato una “soluzione finale” per il campo nomadi di quartiere. Perché le storie, scrive Farhi, “danno forza e riparano ai disastri dentro alle persone”.

Terzo Reich dei nostri giorni

DEANDREA, Pietro
2012-01-01

Abstract

Mentre scrivo questa recensione, Berlino inaugura un memoriale per gli oltre 500mila rom e sinti uccisi dal nazismo. L’evento può rappresentare un granello di consapevolezza in un’Europa dove l’antiziganismo è talmente diffuso da apparire, agli occhi della grande maggioranza, come naturale. Fino a pochi anni fa, in fondo, non esistevano molte ricerche sullo sterminio che in lingua romanés si definisce Porrajmos. Per chi volesse tuffarsi in una narrazione del popolo rom, invece, Figli dell’arcobaleno è un romanzo – senza mezzi termini ¬– travolgente. Memorabile il “Prologo”, che parte proprio da Birkenau: pur circondata dalla morte, la comunità rom riesce a celebrare la propria festa, e a non perdere l’anima. Todor e Zara riescono a far compiere tutti i riti per il loro neonato Branko, su cui le Urme, divinità del fato, pronunciano una enigmatica profezia. Trafugato miracolosamente dal campo di concentramento, nel 1978 il bimbo è diventato il trentenne Benedict, ingegnere e militare svizzero di successo. Alla morte dei genitori adottivi, questi inizia un doloroso percorso di riscoperta delle proprie radici, di come fosse stato rapito e ‘riabilitato’ con l’elettroshock dalle istituzioni elvetiche. E scopre anche il significato della profezia: ritrovare la perduta Bibbia Gitana, l’insieme delle tradizioni orali che un veggente aveva composto proprio a Birkenau, e condurre il popolo rom nella terra promessa, il Romanestan, per sfuggire a persecuzioni e assimilazioni. Figli dell’arcobaleno è un romanzo itinerante che percorre molti paesi europei fino agli anni ’90, quando il trionfo neoliberale e l’emergere dei nazionalismi portano a demonizzare ogni rifugiato e diverso, minacciando anche le comunità rom più stabilizzate: “Quel che l’Europa voleva davvero era una confederazione bianca; […] una confederazione dissanguata, di fatto, del suo stesso futuro; un Terzo Reich dei giorni nostri.” Farhi racconta l’impresa di Branko attraverso cruda realtà e sovrannaturale, ma l’etichetta di ‘realismo magico’ va stretta a questo romanzo. Ogni capitolo, infatti, è chiuso da un brano della Bibbia Gitana, intrisa di pace e tolleranza come la cultura rom: un testo sacro inclusivo, che abbraccia e trasforma monoteismi e politeismi di tutto il mondo, dove “non può esserci libertà, se non è libertà per tutti.” Abramo si immola al posto di Isacco, per esempio, e ciò fa piangere il dio supremo O Del: “voi due Mi avete insegnato che un Dio che pretende sangue va disobbedito. Guardate, Io sono un Dio capace di chiedere perdono – lo faccio adesso”. Questo mescolarsi di generi si fonde in un finale dove trama e Bibbia si intrecciano progressivamente “fino ad assumere”, scrive Saracino nell’Introduzione, “l’ampiezza e i toni di una grande, straordinaria epica moderna.” Un’epica finalmente tradotta (in modo eccellente) per il pubblico italiano, benché con un prezzo ingiustificabile. C’è da sperare venga letta anche da quel consigliere circoscrizionale di Torino che l’anno scorso ha invocato una “soluzione finale” per il campo nomadi di quartiere. Perché le storie, scrive Farhi, “danno forza e riparano ai disastri dentro alle persone”.
2012
xxix
20
20
http://www.lindiceonline.com
Farhi; Rom; epica; sterminio nazista; romanzo; anglofonia; Turchia
Deandrea P.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/129231
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