Dopo cinque anni come prima donna Poeta Laureata, e giunta quindi a metà del suo mandato, Carol Ann Duffy ne ha tratto alcune riflessioni in un’intervista al Guardian del 27/9/14. La curiosità era piuttosto scontata: il più alto ruolo poetico-istituzionale avrà cambiato in qualche modo questa autrice omosessuale di umili origini, i cui versi dirompenti e anti-accademici hanno catturato ogni sorta di pubblico e premio? In sintonia col suo personaggio, Duffy ha dichiarato che questo primo quinquennio “è stato una gioia”, che ha operato per accrescere la presenza pubblica della poesia con nuovi premi e nuovi festival, e che per lei è stato importantissimo cercare di continuare a scrivere versi come prima. Leggere Le api (prima raccolta da Laureata, cui sono seguiti altri lavori come Ritual Lighting del 2014) permette anche di giudicare quanto Duffy sia riuscita in quest’ultimo, condivisibile intento. Va detto subito che alcune poesie suonano fastidiosamente celebrative: quelle sul matrimonio reale e sul calciatore Beckham paiono del tutto fuori luogo. Questa dimensione celebrativa, talvolta, conduce i versi a elenchi di nomi e toponimi non sempre godibili, pur con lo scopo, come scrivono i curatori nell’Introduzione, di “non dimenticare e tenere viva la parte più vera e distintiva della tradizione.” Inoltre essere Poeta Laureata implica comporre a proposito di una serie di eventi pubblici, e ciò si nota nella natura episodica del volume; Duffy d’altronde ha abituato i suoi lettori a raccolte di sofisticata compattezza, come Estasi (2005; Delvecchio 2008), probabilmente il suo capolavoro. Anche attraverso queste crepe, però, filtrano numerosi componimenti in cui esplode l’incontenibile talento dell’autrice; nell’immagine ricorrente delle api, ad esempio, che sono associate alla questione ambientale così come a una pura bellezza musicale: “ogni corpo d’ape / al proprio brillante fiore, stupito d’amore, / strimpellando fragranza, stordito.” Non è solo riguardo alle api che il verso felice di Duffy si mostra sia nella dimensione pubblica sia in quella più intima. La “donna della luna” ci ammonisce sullo stato del pianeta (“Affezionata come le parole alle cose, io fisso attonita, truce; deserti / dove c’erano foreste, mari malsani”), e un’immagine analoga, nel contesto del dibattito su scuola e violenza, diventa un titolo di tema: “Spiega in che modo la poesia / persegue l’umano come la luna ammaliata / sopra la terra piangente, ridente; in che modo noi / ne facciamo preghiere.” Ma ci sono anche poesie di una semplicità folgorante, come “Acqua”, ultima parola della madre dell’autrice prima di morire e ultimo gesto per lei della figlia, che elabora così il lutto: “Una buona ultima parola. / Da notti non piango, ma porto / un bicchiere d’acqua alla mia bambina, la guardo / trangugiarla d’un fiato e poi dormire. Acqua. / Ciò che una madre porta / quando ancora è buio / alla figlia che ha tanta sete.” Persino un banale pesce rosso diventa strumento di ispirazione: “creativo tra lenticchie e marmellata / colorandosi di continuo, autoritratto in liquido”. Oltre a immagini e sentimenti, Duffy gioca coi suoni: in molti di questi versi scoppiettano allitterazioni, assonanze, mezze rime. L’Introduzione dei curatori, puntualissima nel mettere in luce i dialoghi intertestuali presenti nel libro, nota giustamente che in alcuni versi le acrobazie fonetiche si fanno quasi vezzo. Forse non è un caso che proprio là dove invece l’originale ha più robustezza di immagini e suono, la loro traduzione è più convincente, come nell’incipit di “Snow”: “Then all the dead opened their cold palms / and released the snow; slow, slant, silent” (“Poi tutti i morti aprirono il loro freddo palmo / liberando la neve; lenta, obliqua, silente”). Da qui vengono due osservazioni doverose. La prima è quanto i lettori italiani dovrebbero essere grati a traduttori come Sensi e Sirotti (così come nel numero di gennaio 2015 de “L'Indice” si parlava di Paola Splendore per le poesie di Moniza Alvi) per il loro lavoro infaticabile, minuzioso ed entusiasta sulla parola poetica anglofona. La seconda riguarda proprio Le api. Benché, come si diceva sopra, possano tradire lo status di Laureata di Duffy, nella loro varietà queste poesie hanno anche un volto oscuro davvero poco pacificato o pacificante, come nella poesia di chiusura “Un’ape rara”: “Dammi il tuo miele, / benedici la mia lingua con rima, poesia, canto. / Volò sulla mia bocca e mi punse”; o proprio come nel finale della sopracitata “Neve”: “Sempre più stretta, la bella neve / tiene la terra nel suo feroce abbraccio. / È come la morte, ma non è la morte; è più graziosa. / Freddi, a disagio, fuori tempo, cosa farete ora / del dono della vita che vi resta?”

Affezionata come le parole alle cose

DEANDREA, Pietro
2015-01-01

Abstract

Dopo cinque anni come prima donna Poeta Laureata, e giunta quindi a metà del suo mandato, Carol Ann Duffy ne ha tratto alcune riflessioni in un’intervista al Guardian del 27/9/14. La curiosità era piuttosto scontata: il più alto ruolo poetico-istituzionale avrà cambiato in qualche modo questa autrice omosessuale di umili origini, i cui versi dirompenti e anti-accademici hanno catturato ogni sorta di pubblico e premio? In sintonia col suo personaggio, Duffy ha dichiarato che questo primo quinquennio “è stato una gioia”, che ha operato per accrescere la presenza pubblica della poesia con nuovi premi e nuovi festival, e che per lei è stato importantissimo cercare di continuare a scrivere versi come prima. Leggere Le api (prima raccolta da Laureata, cui sono seguiti altri lavori come Ritual Lighting del 2014) permette anche di giudicare quanto Duffy sia riuscita in quest’ultimo, condivisibile intento. Va detto subito che alcune poesie suonano fastidiosamente celebrative: quelle sul matrimonio reale e sul calciatore Beckham paiono del tutto fuori luogo. Questa dimensione celebrativa, talvolta, conduce i versi a elenchi di nomi e toponimi non sempre godibili, pur con lo scopo, come scrivono i curatori nell’Introduzione, di “non dimenticare e tenere viva la parte più vera e distintiva della tradizione.” Inoltre essere Poeta Laureata implica comporre a proposito di una serie di eventi pubblici, e ciò si nota nella natura episodica del volume; Duffy d’altronde ha abituato i suoi lettori a raccolte di sofisticata compattezza, come Estasi (2005; Delvecchio 2008), probabilmente il suo capolavoro. Anche attraverso queste crepe, però, filtrano numerosi componimenti in cui esplode l’incontenibile talento dell’autrice; nell’immagine ricorrente delle api, ad esempio, che sono associate alla questione ambientale così come a una pura bellezza musicale: “ogni corpo d’ape / al proprio brillante fiore, stupito d’amore, / strimpellando fragranza, stordito.” Non è solo riguardo alle api che il verso felice di Duffy si mostra sia nella dimensione pubblica sia in quella più intima. La “donna della luna” ci ammonisce sullo stato del pianeta (“Affezionata come le parole alle cose, io fisso attonita, truce; deserti / dove c’erano foreste, mari malsani”), e un’immagine analoga, nel contesto del dibattito su scuola e violenza, diventa un titolo di tema: “Spiega in che modo la poesia / persegue l’umano come la luna ammaliata / sopra la terra piangente, ridente; in che modo noi / ne facciamo preghiere.” Ma ci sono anche poesie di una semplicità folgorante, come “Acqua”, ultima parola della madre dell’autrice prima di morire e ultimo gesto per lei della figlia, che elabora così il lutto: “Una buona ultima parola. / Da notti non piango, ma porto / un bicchiere d’acqua alla mia bambina, la guardo / trangugiarla d’un fiato e poi dormire. Acqua. / Ciò che una madre porta / quando ancora è buio / alla figlia che ha tanta sete.” Persino un banale pesce rosso diventa strumento di ispirazione: “creativo tra lenticchie e marmellata / colorandosi di continuo, autoritratto in liquido”. Oltre a immagini e sentimenti, Duffy gioca coi suoni: in molti di questi versi scoppiettano allitterazioni, assonanze, mezze rime. L’Introduzione dei curatori, puntualissima nel mettere in luce i dialoghi intertestuali presenti nel libro, nota giustamente che in alcuni versi le acrobazie fonetiche si fanno quasi vezzo. Forse non è un caso che proprio là dove invece l’originale ha più robustezza di immagini e suono, la loro traduzione è più convincente, come nell’incipit di “Snow”: “Then all the dead opened their cold palms / and released the snow; slow, slant, silent” (“Poi tutti i morti aprirono il loro freddo palmo / liberando la neve; lenta, obliqua, silente”). Da qui vengono due osservazioni doverose. La prima è quanto i lettori italiani dovrebbero essere grati a traduttori come Sensi e Sirotti (così come nel numero di gennaio 2015 de “L'Indice” si parlava di Paola Splendore per le poesie di Moniza Alvi) per il loro lavoro infaticabile, minuzioso ed entusiasta sulla parola poetica anglofona. La seconda riguarda proprio Le api. Benché, come si diceva sopra, possano tradire lo status di Laureata di Duffy, nella loro varietà queste poesie hanno anche un volto oscuro davvero poco pacificato o pacificante, come nella poesia di chiusura “Un’ape rara”: “Dammi il tuo miele, / benedici la mia lingua con rima, poesia, canto. / Volò sulla mia bocca e mi punse”; o proprio come nel finale della sopracitata “Neve”: “Sempre più stretta, la bella neve / tiene la terra nel suo feroce abbraccio. / È come la morte, ma non è la morte; è più graziosa. / Freddi, a disagio, fuori tempo, cosa farete ora / del dono della vita che vi resta?”
2015
xxxii
5 (maggio)
27
27
http://www.lindiceonline.com
Duffy; poesia inglese
P. Deandrea
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1509369
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