“Per conoscere l’Inghilterra di oggi e cosa significhi scrivere poesia che sa insieme comunicare e negarsi a un consumo prevedibile non c’è guida migliore di Simon Armitage”. Così Massimo Bacigalupo chiude la recensione di questa raccolta su Alias – Il manifesto (10/5/2015). Come dargli torto? Ex assistente ai carcerati in libertà provvisoria, ‘autodidatta’ dal verso raffinatissimo e insieme crudo cantore dei margini, Armitage è il poeta odierno da leggere e insegnare. Ammazzare il tempo (1999), primo volume qui antologizzato, è dominato dalla presenza strisciante della guerra: “per quanta strada / crediamo di aver fatto, siamo ancora / a una sola parola dalla guerra. / […] la cosa che ci avevano detto / del passato sta riapparendo ancora come l’alba, / ed è buia, ed è fredda.” In un tempo appiattito dalla vorace superficialità dei media, il capodanno 2000 si rivela evanescente come le bollicine di champagne; rimane solo “un silenzio così profondo da comparire sulla scala Richter”. Un analogo silenzio contraddistingue le prime poesie da A ciel sereno (2008), e forse è per questo che il curatore le pone subito dopo, senza rispettare l’ordine di pubblicazione. Nell’alba che precede la tragedia dell’11 settembre, un britannico impiegato nelle Torri Gemelle si gode il panorama, provando una sensazione di potere (“Esaltazione. Tutto respiro. Tutto chiaro […] Le torri insieme. / I bracci silenziosi di un diapason / che misura la quiete”), per ritrovarsi all’improvviso nello squarcio dell’edificio – “le vene e fibre e viscere e nervi, / messi a nudo e sconnessi […] / un torrente di lettere e memo e moduli / ora sgorga e imperversa” – ma anche della propria vita e di tante altre storie individuali: “Raymond sfonda il muro con un pugno. / Pedro si allenta colletto e cravatta. / Ralph e Craig fanno una coda ordinata. / Amy torna a cercare la borsetta.” Questo caos è reso con versi nervosi o talvolta cantilenanti, macchina poetica perfetta per indurre nel lettore un attacco di panico: “ogni atomo irato e vivo di calore […] Poi l’enormità cade. / Poi ogni senso cede./ […] / Poi l’immagine persa / in cenere che si alza e polvere che incalza.” Peccato che la versione italiana soffra di qualche resa un po’ pigra della ricchezza fonetica dell’originale e di alcune scelte inspiegabili: se alcuni versi iniziali sono ripetuti alla fine della raccolta, perché tradurli in modo diverso? Le poesie delle raccolte seguenti qui incluse, a partire da Il medico di famiglia per tutti (2002), sono più prosaiche nel verso, di struttura episodica e dimensione più personale. C’è l’alba dopo una separazione dolorosa: “Il primo bus, vuoto, porta il suo carico di luce / dalla stazione, come un blocco di ghiaccio. / […] / Invecchiato di un giorno, il pianeta piange”; la resa in versi dell’Odissea; e l’amara Visione, significativa di un certo odierno sentire riguardo alle utopie: le città-modello esibite in compensato erano “città simili a sogni, sbalzate dalla luce. / […] / Ho estratto quel futuro dal vento del nord / alla discarica, con stampata la data di oggi, / a cavalcare l’aria con futuri simili, / tutti mai vissuti e ora del tutto estinti.” Come contraltare, l’ode alle cameriere di una sala da tè ben rappresenta la caratteristica verve ironica di Armitage: “O donne, i piedi surriscaldati nelle scarpe comode, / le dita in fiamme, sfrigolanti e sibilanti sotto la griglia. / […] / Ma voi, sotto le travi finto Tudor, i falsi scudi, / sotto gli stemmi tarocchi, andate avanti, avanti”. E questo tono straniante, irrealmente beffardo, ritorna in Vedere le stelle (2010), dove la voce poetica può essere un capodoglio (sperm whale): “Il mio cervello è grosso come un pallone da basket, e anche solo per questo ho diritto alle mie opinioni. […] I primi che mi hanno aperto hanno pensato che la mia testa fosse piena di sperma, ma erano uomini, e vivevano senza donne da molte settimane, e lontano da casa. Uno schizzetto ti scappa.” Indimenticabile la poesia del ragazzo che ruba in casa della madre, ma trova il proprio necrologio da lei scritto (“Lascia sua madre, Eleanor, cui / ha portato via tutto, ma che tutto di nuovo darebbe / solo perché le urlasse in faccia le sue angosce / o martellasse in petto la sua furia per l’ultima volta.”), e si rende conto di essere morto. Armitage, si diceva sopra, è poeta da insegnare e da diffondere. Lui stesso si prodiga come divulgatore mediatico che recupera la dimensione pubblica della poesia (rilevante anche nella recensione qui accanto). Ma come adottare questo volume, totalmente privo di introduzione e note esplicative? Neanche le date delle singole raccolte sono menzionate. Nella sua recensione, Bacigalupo sostiene che gli apparati sono per lettori pigri e rovinano il piacere della presa diretta. Io invece mi immagino i lettori, o studenti, che solitamente non leggono poesia, abbandonati al loro destino. E poi un’antologia più ‘adottabile’ potrebbe vendere meglio, magari aiutando l’editore a diminuire il prezzo davvero poco proponibile di volumi come questo.

I bracci silenziosi di un diapason

DEANDREA, Pietro
2015-01-01

Abstract

“Per conoscere l’Inghilterra di oggi e cosa significhi scrivere poesia che sa insieme comunicare e negarsi a un consumo prevedibile non c’è guida migliore di Simon Armitage”. Così Massimo Bacigalupo chiude la recensione di questa raccolta su Alias – Il manifesto (10/5/2015). Come dargli torto? Ex assistente ai carcerati in libertà provvisoria, ‘autodidatta’ dal verso raffinatissimo e insieme crudo cantore dei margini, Armitage è il poeta odierno da leggere e insegnare. Ammazzare il tempo (1999), primo volume qui antologizzato, è dominato dalla presenza strisciante della guerra: “per quanta strada / crediamo di aver fatto, siamo ancora / a una sola parola dalla guerra. / […] la cosa che ci avevano detto / del passato sta riapparendo ancora come l’alba, / ed è buia, ed è fredda.” In un tempo appiattito dalla vorace superficialità dei media, il capodanno 2000 si rivela evanescente come le bollicine di champagne; rimane solo “un silenzio così profondo da comparire sulla scala Richter”. Un analogo silenzio contraddistingue le prime poesie da A ciel sereno (2008), e forse è per questo che il curatore le pone subito dopo, senza rispettare l’ordine di pubblicazione. Nell’alba che precede la tragedia dell’11 settembre, un britannico impiegato nelle Torri Gemelle si gode il panorama, provando una sensazione di potere (“Esaltazione. Tutto respiro. Tutto chiaro […] Le torri insieme. / I bracci silenziosi di un diapason / che misura la quiete”), per ritrovarsi all’improvviso nello squarcio dell’edificio – “le vene e fibre e viscere e nervi, / messi a nudo e sconnessi […] / un torrente di lettere e memo e moduli / ora sgorga e imperversa” – ma anche della propria vita e di tante altre storie individuali: “Raymond sfonda il muro con un pugno. / Pedro si allenta colletto e cravatta. / Ralph e Craig fanno una coda ordinata. / Amy torna a cercare la borsetta.” Questo caos è reso con versi nervosi o talvolta cantilenanti, macchina poetica perfetta per indurre nel lettore un attacco di panico: “ogni atomo irato e vivo di calore […] Poi l’enormità cade. / Poi ogni senso cede./ […] / Poi l’immagine persa / in cenere che si alza e polvere che incalza.” Peccato che la versione italiana soffra di qualche resa un po’ pigra della ricchezza fonetica dell’originale e di alcune scelte inspiegabili: se alcuni versi iniziali sono ripetuti alla fine della raccolta, perché tradurli in modo diverso? Le poesie delle raccolte seguenti qui incluse, a partire da Il medico di famiglia per tutti (2002), sono più prosaiche nel verso, di struttura episodica e dimensione più personale. C’è l’alba dopo una separazione dolorosa: “Il primo bus, vuoto, porta il suo carico di luce / dalla stazione, come un blocco di ghiaccio. / […] / Invecchiato di un giorno, il pianeta piange”; la resa in versi dell’Odissea; e l’amara Visione, significativa di un certo odierno sentire riguardo alle utopie: le città-modello esibite in compensato erano “città simili a sogni, sbalzate dalla luce. / […] / Ho estratto quel futuro dal vento del nord / alla discarica, con stampata la data di oggi, / a cavalcare l’aria con futuri simili, / tutti mai vissuti e ora del tutto estinti.” Come contraltare, l’ode alle cameriere di una sala da tè ben rappresenta la caratteristica verve ironica di Armitage: “O donne, i piedi surriscaldati nelle scarpe comode, / le dita in fiamme, sfrigolanti e sibilanti sotto la griglia. / […] / Ma voi, sotto le travi finto Tudor, i falsi scudi, / sotto gli stemmi tarocchi, andate avanti, avanti”. E questo tono straniante, irrealmente beffardo, ritorna in Vedere le stelle (2010), dove la voce poetica può essere un capodoglio (sperm whale): “Il mio cervello è grosso come un pallone da basket, e anche solo per questo ho diritto alle mie opinioni. […] I primi che mi hanno aperto hanno pensato che la mia testa fosse piena di sperma, ma erano uomini, e vivevano senza donne da molte settimane, e lontano da casa. Uno schizzetto ti scappa.” Indimenticabile la poesia del ragazzo che ruba in casa della madre, ma trova il proprio necrologio da lei scritto (“Lascia sua madre, Eleanor, cui / ha portato via tutto, ma che tutto di nuovo darebbe / solo perché le urlasse in faccia le sue angosce / o martellasse in petto la sua furia per l’ultima volta.”), e si rende conto di essere morto. Armitage, si diceva sopra, è poeta da insegnare e da diffondere. Lui stesso si prodiga come divulgatore mediatico che recupera la dimensione pubblica della poesia (rilevante anche nella recensione qui accanto). Ma come adottare questo volume, totalmente privo di introduzione e note esplicative? Neanche le date delle singole raccolte sono menzionate. Nella sua recensione, Bacigalupo sostiene che gli apparati sono per lettori pigri e rovinano il piacere della presa diretta. Io invece mi immagino i lettori, o studenti, che solitamente non leggono poesia, abbandonati al loro destino. E poi un’antologia più ‘adottabile’ potrebbe vendere meglio, magari aiutando l’editore a diminuire il prezzo davvero poco proponibile di volumi come questo.
2015
xxxii
9 (settembre 2015)
25
25
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Armitage, poesia inglese
Deandrea, Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1525634
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