Compito davvero arduo, per Ishiguro, pubblicare un romanzo dopo quello che lo ha preceduto, uno dei libri-chiave di inizio XXI secolo. I cloni di Non lasciarmi (2005; Einaudi 2006) hanno coinvolto critici, docenti, studenti e lettori di ogni età in riflessioni attorno ai confini dell’umano, al valore della vita e al carattere sottilmente pervasivo delle forme contemporanee di sfruttamento. Il tutto è stato poi amplificato dall’altrettanto riuscita versione cinematografica, prodotta dallo stesso Ishiguro. Dopo una raccolta di racconti piuttosto deludenti (Notturni, 2009; Einaudi), l’autore era atteso al varco. Su quale trama ed argomento avrebbe sfoggiato la sua tipica tecnica romanzesca, poco adatta alle forme brevi, composta da piccole rivelazioni a lento rilascio che ammaliano mostrando e insieme nascondendo la realtà dei fatti? Mai fine a se stessa, tale tecnica è spesso radicata nella trama. I cloni di Non lasciarmi comprendevano il loro destino poco a poco perché tenuti all’oscuro dai loro educatori. Qualcosa di simile accade per il tema de Il gigante sepolto, che va al cuore di questo stile in maniera quasi meta-Ishiguriana, riflettendo sulla natura della memoria e, quindi, del sapere. Una generazione dopo Re Artù, in un desolato paesaggio abitato da Britanni e Sassoni, la coppia di anziani Axl e Beatrice abbandonano il loro loculo nelle viscere della roccia per recarsi da un figlio che dovrebbe risiedere in un villaggio non lontano. Ma nulla può dirsi con certezza, perché ogni ricordo si perde in un’amnesia collettiva, “una nebbia fitta come quella che pesava sopra gli acquitrini. Non c’era l’uso di pensare al passato, tra quella gente, nemmeno se prossimo.” In un viaggio di pochi giorni, i due protagonisti faranno incontri rivelatori quanto enigmatici: un barcaiolo carontiano che traghetta coppie come loro verso un’isola “dalle qualità particolari”, lasciando spesso a terra lugubri vedove; villaggi attaccati da orchi e preda di crudeli superstizioni; elfi, folletti, draghi, guaritori e monaci infidi. Non c’è chiarezza neanche nel ruolo di Ser Galvano, anziano nipote di Artù, dai modi cavallerescamente senili e donchisciotteschi, affezionato al ronzino Orazio compagno di tante avventure. Axl e Beatrice sono sospinti dal desiderio di riavere i “ricordi di questa lunga vita trascorsa insieme”, ma lentamente emergono anche vaghe reminiscenze di passati dissapori. È un’ambivalenza che si riflette a livello collettivo: vale la pena sollevare la “nebbia che li obnubila” e riportare alla luce vecchi massacri di innocenti, “un odio nero e profondo come gli abissi del mare”, mettendo a rischio la fragile pace tra Britanni e Sassoni? Una volta scoperta la causa della nebbia dei ricordi, è questo il dilemma su cui si concentrano Axl e Beatrice, così come Galvano e il guerriero sassone Wistan. Ishiguro ha risposto alle attese dei suoi lettori con il suo solito coraggio e gusto per l’osare. Innanzi tutto perché la nebbia che oscura i ricordi ispira talvolta nei personaggi pensieri e comportamenti angosciati ed angoscianti, molto vicini al linguaggio del sogno, elemento che contraddistingueva il suo romanzo più controverso, Gli inconsolabili (1995; Einaudi 1997). Le due opere condividono non solo la riflessione sulla memoria, ma anche la mancanza di risposte certe a molte questioni, come è prevedibile da un’atmosfera onirica. C’è inoltre un coraggio di genere. Diversamente dal climax fallico del romanzo moderno, il romanzo cavalleresco, secondo una beffarda definizione di David Lodge, è composto da un susseguirsi di avventure e momenti critici che si aprono e chiudono in successione, paragonabili a un orgasmo multiplo. È una struttura a scatti che può forse adattarsi allo stile di Ishiguro, benché quest’ultimo sia più simile a un orgasmo costantemente differito. Il personaggio di Galvano, poi, è ereditato dalla tradizione arturiana del periodo Medio Inglese (1350-1500), che recuperava il verso allitterativo dell’Inglese Antico: il suo poema più famoso si intitola proprio Sir Galvano e il cavaliere verde, dove Galvano era l’esponente più importante della cerchia di Re Artù ancora prima di Lancillotto. Su questa base cavalleresca, l’autore innesta problematiche storiche sociali contemporanee: ciò può risultare disorientante, ma viene amalgamato grazie a un linguaggio dagli echi arcaici e allo stesso tempo scorrevole, che trasporta il lettore in questa dimensione altra con naturalezza estrema, senza scossoni. Il narratore-bardo in alcuni capitoli viene sostituito dalle voci narranti di Galvano stesso e del barcaiolo, che mescolano tempo presente e passato in una formula tipica proprio del Revival Allitterativo. Qui va citato il grande lavoro di Susanna Basso, la cui traduzione lascia un segno profondo anche grazie ad alcune scelte che accentuano il poetico: “land” diventa “contrada”, e l’incipit “A lungo avreste cercato…” è molto più lirico dell’originale. Per tutti questi motivi, mi sembra che Il gigante sepolto sia un libro meno universale, meno ‘per tutti’, rispetto a Non lasciarmi, soprattutto per il suo concentrarsi sui ricordi, sul passato. E forse anche meno avvincente come tipo di lettura che ispira, giacché sperimentazione e argomento inducono a pause di riflessione più prolungate e approfondite. Ma non per questo si può dire meno ricco e suggestivo. Intervistato da Francesca Borrelli per Alias – Il manifesto, l’autore ha proposto una definizione per Il gigante che potrebbe applicarsi a tutti i suoi romanzi: “un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgercene più.” Un tentativo certamente riuscito. E qui si torna inevitabilmente al tema principale: “Ci sarà tra voi chi voglia erigere splendidi monumenti attraverso i quali i vivi possano ricordare il male subìto. Altri vorranno solo nude croci in legno o qualche pietra dipinta, e altri ancora dovranno restare invisibili all’ombra della storia.” Quale uso fare della memoria di atrocità del passato? “Non è forse meglio che le cose rimangano nascoste alle nostre menti? (…) non avete paura dei brutti ricordi?” In più occasioni l’autore ha menzionato le tragedie collettive di Bosnia e Rwanda come fonti ispiratrici di questa riflessione. Nel romanzo si confrontano le opinioni di chi vorrebbe concedere “al paese il riposo della smemoratezza”, spargendo un’amnesia che inevitabilmente viene collegata ai difetti di memoria del nostro presente, “come se una malattia si fosse abbattuta su di noi”; e le trame dei provocatori che vogliono disseppellire i ricordi per fini personali: “Chissà che potrà succedere non appena uomini lesti con la lingua faranno rimare gli antichi rancori con la novella brama di terre di conquista.” Ne esce una visione complessiva estremamente pessimista, priva di ogni possibile utilizzo produttivo e curante della memoria. Purtroppo nessun personaggio si fa portavoce di un recupero del tragico passato collettivo a fini di riconciliazione, come nel tentativo operato dalla Truth and Reconciliation Commission sudafricana. Se ciò avviene, si ritrova solo a livello personale: “Guardiamo con occhi liberi il sentiero che ci ha portati qui insieme, sia nel buio o sotto un tiepido sole”, dice Beatrice ad Axl. Come Non lasciarmi, questo romanzo è una grande storia d’amore che si intreccia con naturalezza a ogni più ampia riflessione, fino a sovrastarla. Se in Non lasciarmi le coppie di cloni innamorati cercavano di ottenere una breve deroga alle donazioni di organi per godere del proprio amore ancora qualche anno, lo sguardo ne Il gigante sepolto spazia verso l’eterno dell’isola misteriosa: “Iddio saprà riconoscere il passo lento dell’amore di due vecchi uno per l’altro, e comprendere come le ombre scure ne facciano parte”, dice Axl al barcaiolo. Ma forse è meglio fermarsi qui: nella repubblica dei lettori di Ishiguro, anticipare la trama è un crimine gravissimo, di cui questa recensione è già ampiamente colpevole.

Struttura a orgasmo multiplo

DEANDREA, Pietro
2015-01-01

Abstract

Compito davvero arduo, per Ishiguro, pubblicare un romanzo dopo quello che lo ha preceduto, uno dei libri-chiave di inizio XXI secolo. I cloni di Non lasciarmi (2005; Einaudi 2006) hanno coinvolto critici, docenti, studenti e lettori di ogni età in riflessioni attorno ai confini dell’umano, al valore della vita e al carattere sottilmente pervasivo delle forme contemporanee di sfruttamento. Il tutto è stato poi amplificato dall’altrettanto riuscita versione cinematografica, prodotta dallo stesso Ishiguro. Dopo una raccolta di racconti piuttosto deludenti (Notturni, 2009; Einaudi), l’autore era atteso al varco. Su quale trama ed argomento avrebbe sfoggiato la sua tipica tecnica romanzesca, poco adatta alle forme brevi, composta da piccole rivelazioni a lento rilascio che ammaliano mostrando e insieme nascondendo la realtà dei fatti? Mai fine a se stessa, tale tecnica è spesso radicata nella trama. I cloni di Non lasciarmi comprendevano il loro destino poco a poco perché tenuti all’oscuro dai loro educatori. Qualcosa di simile accade per il tema de Il gigante sepolto, che va al cuore di questo stile in maniera quasi meta-Ishiguriana, riflettendo sulla natura della memoria e, quindi, del sapere. Una generazione dopo Re Artù, in un desolato paesaggio abitato da Britanni e Sassoni, la coppia di anziani Axl e Beatrice abbandonano il loro loculo nelle viscere della roccia per recarsi da un figlio che dovrebbe risiedere in un villaggio non lontano. Ma nulla può dirsi con certezza, perché ogni ricordo si perde in un’amnesia collettiva, “una nebbia fitta come quella che pesava sopra gli acquitrini. Non c’era l’uso di pensare al passato, tra quella gente, nemmeno se prossimo.” In un viaggio di pochi giorni, i due protagonisti faranno incontri rivelatori quanto enigmatici: un barcaiolo carontiano che traghetta coppie come loro verso un’isola “dalle qualità particolari”, lasciando spesso a terra lugubri vedove; villaggi attaccati da orchi e preda di crudeli superstizioni; elfi, folletti, draghi, guaritori e monaci infidi. Non c’è chiarezza neanche nel ruolo di Ser Galvano, anziano nipote di Artù, dai modi cavallerescamente senili e donchisciotteschi, affezionato al ronzino Orazio compagno di tante avventure. Axl e Beatrice sono sospinti dal desiderio di riavere i “ricordi di questa lunga vita trascorsa insieme”, ma lentamente emergono anche vaghe reminiscenze di passati dissapori. È un’ambivalenza che si riflette a livello collettivo: vale la pena sollevare la “nebbia che li obnubila” e riportare alla luce vecchi massacri di innocenti, “un odio nero e profondo come gli abissi del mare”, mettendo a rischio la fragile pace tra Britanni e Sassoni? Una volta scoperta la causa della nebbia dei ricordi, è questo il dilemma su cui si concentrano Axl e Beatrice, così come Galvano e il guerriero sassone Wistan. Ishiguro ha risposto alle attese dei suoi lettori con il suo solito coraggio e gusto per l’osare. Innanzi tutto perché la nebbia che oscura i ricordi ispira talvolta nei personaggi pensieri e comportamenti angosciati ed angoscianti, molto vicini al linguaggio del sogno, elemento che contraddistingueva il suo romanzo più controverso, Gli inconsolabili (1995; Einaudi 1997). Le due opere condividono non solo la riflessione sulla memoria, ma anche la mancanza di risposte certe a molte questioni, come è prevedibile da un’atmosfera onirica. C’è inoltre un coraggio di genere. Diversamente dal climax fallico del romanzo moderno, il romanzo cavalleresco, secondo una beffarda definizione di David Lodge, è composto da un susseguirsi di avventure e momenti critici che si aprono e chiudono in successione, paragonabili a un orgasmo multiplo. È una struttura a scatti che può forse adattarsi allo stile di Ishiguro, benché quest’ultimo sia più simile a un orgasmo costantemente differito. Il personaggio di Galvano, poi, è ereditato dalla tradizione arturiana del periodo Medio Inglese (1350-1500), che recuperava il verso allitterativo dell’Inglese Antico: il suo poema più famoso si intitola proprio Sir Galvano e il cavaliere verde, dove Galvano era l’esponente più importante della cerchia di Re Artù ancora prima di Lancillotto. Su questa base cavalleresca, l’autore innesta problematiche storiche sociali contemporanee: ciò può risultare disorientante, ma viene amalgamato grazie a un linguaggio dagli echi arcaici e allo stesso tempo scorrevole, che trasporta il lettore in questa dimensione altra con naturalezza estrema, senza scossoni. Il narratore-bardo in alcuni capitoli viene sostituito dalle voci narranti di Galvano stesso e del barcaiolo, che mescolano tempo presente e passato in una formula tipica proprio del Revival Allitterativo. Qui va citato il grande lavoro di Susanna Basso, la cui traduzione lascia un segno profondo anche grazie ad alcune scelte che accentuano il poetico: “land” diventa “contrada”, e l’incipit “A lungo avreste cercato…” è molto più lirico dell’originale. Per tutti questi motivi, mi sembra che Il gigante sepolto sia un libro meno universale, meno ‘per tutti’, rispetto a Non lasciarmi, soprattutto per il suo concentrarsi sui ricordi, sul passato. E forse anche meno avvincente come tipo di lettura che ispira, giacché sperimentazione e argomento inducono a pause di riflessione più prolungate e approfondite. Ma non per questo si può dire meno ricco e suggestivo. Intervistato da Francesca Borrelli per Alias – Il manifesto, l’autore ha proposto una definizione per Il gigante che potrebbe applicarsi a tutti i suoi romanzi: “un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgercene più.” Un tentativo certamente riuscito. E qui si torna inevitabilmente al tema principale: “Ci sarà tra voi chi voglia erigere splendidi monumenti attraverso i quali i vivi possano ricordare il male subìto. Altri vorranno solo nude croci in legno o qualche pietra dipinta, e altri ancora dovranno restare invisibili all’ombra della storia.” Quale uso fare della memoria di atrocità del passato? “Non è forse meglio che le cose rimangano nascoste alle nostre menti? (…) non avete paura dei brutti ricordi?” In più occasioni l’autore ha menzionato le tragedie collettive di Bosnia e Rwanda come fonti ispiratrici di questa riflessione. Nel romanzo si confrontano le opinioni di chi vorrebbe concedere “al paese il riposo della smemoratezza”, spargendo un’amnesia che inevitabilmente viene collegata ai difetti di memoria del nostro presente, “come se una malattia si fosse abbattuta su di noi”; e le trame dei provocatori che vogliono disseppellire i ricordi per fini personali: “Chissà che potrà succedere non appena uomini lesti con la lingua faranno rimare gli antichi rancori con la novella brama di terre di conquista.” Ne esce una visione complessiva estremamente pessimista, priva di ogni possibile utilizzo produttivo e curante della memoria. Purtroppo nessun personaggio si fa portavoce di un recupero del tragico passato collettivo a fini di riconciliazione, come nel tentativo operato dalla Truth and Reconciliation Commission sudafricana. Se ciò avviene, si ritrova solo a livello personale: “Guardiamo con occhi liberi il sentiero che ci ha portati qui insieme, sia nel buio o sotto un tiepido sole”, dice Beatrice ad Axl. Come Non lasciarmi, questo romanzo è una grande storia d’amore che si intreccia con naturalezza a ogni più ampia riflessione, fino a sovrastarla. Se in Non lasciarmi le coppie di cloni innamorati cercavano di ottenere una breve deroga alle donazioni di organi per godere del proprio amore ancora qualche anno, lo sguardo ne Il gigante sepolto spazia verso l’eterno dell’isola misteriosa: “Iddio saprà riconoscere il passo lento dell’amore di due vecchi uno per l’altro, e comprendere come le ombre scure ne facciano parte”, dice Axl al barcaiolo. Ma forse è meglio fermarsi qui: nella repubblica dei lettori di Ishiguro, anticipare la trama è un crimine gravissimo, di cui questa recensione è già ampiamente colpevole.
2015
xxxii
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19
19
http://www.lindiceonline.com/letture/narrativa-straniera/kazuo-ishiguro-il-gigante-sepolto/
Ishiguro, memoria, riconciliazione, romanzo cavalleresco, ciclo arturiano, letteratura postcoloniale
Deandrea, Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1528239
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