Il contributo si concentra sull’immagine di Atlantide nel terzo Inno delle Grazie di Foscolo, prendendo in esame le trasformazioni del mito platonico nell’autore e in alcuni poeti europei coevi. Per Platone, infatti, il mito di Atlantide aveva un’evidente valenza politica – quella di dimostrare le possibilità di esistenza e di azione di uno stato ideale nella sua incarnazione storica e in guerra (Atene vs Atlantide), – mentre in Foscolo esso rappresenta la bellezza, l’antidoto alla crudeltà della storia. Se da un lato, in generale, il mito propone una spiegazione profonda e intuitiva della condizione umana, dall’altro costituisce l’illusoria speranza di accedere al mondo remoto e pacificato degli antichi “che si credeano”, come Foscolo scrive nell’Ortis, “degni de’ baci delle immortali dive”. L’idea platonica rivive perciò non a fondamento di una “metafisica della storia” ma in poesia, come sostiene Leopardi, secondo cui Platone fu “sublime filosofo” perché capace di “sognare”, di immaginare le ragioni, pur non vere in senso metafisico, dell’esistenza e della natura (Zib., f. 3242). In questo senso, l’idea si presenta come finzione del pensiero, forma poetica. Nell’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, Foscolo associa fantasia, memoria e passione nella creazione (tutta umana e terrena) delle “deità del bello, del vero, del giusto”. È “la fantasia del mortale” che “abbellisce le cose che si sono ammirate e amate” e “tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato”. Le idee platoniche diventano deità create dall’immaginazione degli irrequieti mortali per eludere la morte. La composizione delle Grazie risponde a questo criterio di poetica, incentrato sulla possibilità di comunicare con pitture e immagini che diventano sostitutive delle idee, identificandosi con la Bellezza quale ideale assoluto da trasmettere. Non è dunque alla ragione che le Grazie si rivolgono, quanto ancora alla fantasia: “è mio intento” – spiega Foscolo in Appunti sulla ragione poetica del carme – “di rappresentare le idee metafisiche in modo che lasciando in pace l’intelletto de’ lettori si presentino in tante immagini alla loro fantasia; dalla quali immagini desumano i sentimenti che sogliono essere ispirati dalla Grazia, ed ispirarla”. Nel III Inno del carme, il poeta recupera il mito platonico di Atlantide, collocando l’isola in uno spazio indefinito e rimosso dal presente: “Isola è in mezzo all’Ocean, là dove / Sorge più curvo agli astri, immensa terra, / Come è grido vetusto, un dì beata / D’eterne messi e di mortali altrice” (III, 67-70). L’isola, reggia di Minerva, si presenta come un miraggio, simbolo di un’età aurea non più raggiungibile dai mortali, illusi “dal desio” come il “nocchiero” che la invoca (III, 71-76). L’“immensa terra” esiste, paradossalmente, nelle sole voci: è il “grido vetusto” a cui si collega il richiamo del nocchiero, l’invocazione all’intero orbe tra i due poli, l’espressione del desiderio di qualsiasi uomo che vorrebbe partecipare al divino e che ne è al tempo stesso illuso ed estasiato attraverso i sensi (non soltanto l’udito, ma anche la vista, con la visione delle albe che si succedono nel viaggio, tra i monti e le acque). L’unica possibilità resta quella di darle un nome, Atlantide, dove il non luogo risuona in forma poetica. A partire dall’immagine dell’Atlantide nelle Grazie di Foscolo e dai rapporti tra mito platonico e poesia, quindi, questo contributo si propone di estendere, pur sinteticamente, l’analisi al contesto italiano e europeo, da Leopardi a Hölderlin (Der Arcipelagus) e a Keats (Ode to a Grecian Urn), fino ai pays chimériques di Baudelaire (Le Voyage).

Atlantide e altri pays chimériques: mito platonico e poesia nelle Grazie di Foscolo e in alcuni autori europei coevi

LOMBARDI, Chiara
2015-01-01

Abstract

Il contributo si concentra sull’immagine di Atlantide nel terzo Inno delle Grazie di Foscolo, prendendo in esame le trasformazioni del mito platonico nell’autore e in alcuni poeti europei coevi. Per Platone, infatti, il mito di Atlantide aveva un’evidente valenza politica – quella di dimostrare le possibilità di esistenza e di azione di uno stato ideale nella sua incarnazione storica e in guerra (Atene vs Atlantide), – mentre in Foscolo esso rappresenta la bellezza, l’antidoto alla crudeltà della storia. Se da un lato, in generale, il mito propone una spiegazione profonda e intuitiva della condizione umana, dall’altro costituisce l’illusoria speranza di accedere al mondo remoto e pacificato degli antichi “che si credeano”, come Foscolo scrive nell’Ortis, “degni de’ baci delle immortali dive”. L’idea platonica rivive perciò non a fondamento di una “metafisica della storia” ma in poesia, come sostiene Leopardi, secondo cui Platone fu “sublime filosofo” perché capace di “sognare”, di immaginare le ragioni, pur non vere in senso metafisico, dell’esistenza e della natura (Zib., f. 3242). In questo senso, l’idea si presenta come finzione del pensiero, forma poetica. Nell’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, Foscolo associa fantasia, memoria e passione nella creazione (tutta umana e terrena) delle “deità del bello, del vero, del giusto”. È “la fantasia del mortale” che “abbellisce le cose che si sono ammirate e amate” e “tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato”. Le idee platoniche diventano deità create dall’immaginazione degli irrequieti mortali per eludere la morte. La composizione delle Grazie risponde a questo criterio di poetica, incentrato sulla possibilità di comunicare con pitture e immagini che diventano sostitutive delle idee, identificandosi con la Bellezza quale ideale assoluto da trasmettere. Non è dunque alla ragione che le Grazie si rivolgono, quanto ancora alla fantasia: “è mio intento” – spiega Foscolo in Appunti sulla ragione poetica del carme – “di rappresentare le idee metafisiche in modo che lasciando in pace l’intelletto de’ lettori si presentino in tante immagini alla loro fantasia; dalla quali immagini desumano i sentimenti che sogliono essere ispirati dalla Grazia, ed ispirarla”. Nel III Inno del carme, il poeta recupera il mito platonico di Atlantide, collocando l’isola in uno spazio indefinito e rimosso dal presente: “Isola è in mezzo all’Ocean, là dove / Sorge più curvo agli astri, immensa terra, / Come è grido vetusto, un dì beata / D’eterne messi e di mortali altrice” (III, 67-70). L’isola, reggia di Minerva, si presenta come un miraggio, simbolo di un’età aurea non più raggiungibile dai mortali, illusi “dal desio” come il “nocchiero” che la invoca (III, 71-76). L’“immensa terra” esiste, paradossalmente, nelle sole voci: è il “grido vetusto” a cui si collega il richiamo del nocchiero, l’invocazione all’intero orbe tra i due poli, l’espressione del desiderio di qualsiasi uomo che vorrebbe partecipare al divino e che ne è al tempo stesso illuso ed estasiato attraverso i sensi (non soltanto l’udito, ma anche la vista, con la visione delle albe che si succedono nel viaggio, tra i monti e le acque). L’unica possibilità resta quella di darle un nome, Atlantide, dove il non luogo risuona in forma poetica. A partire dall’immagine dell’Atlantide nelle Grazie di Foscolo e dai rapporti tra mito platonico e poesia, quindi, questo contributo si propone di estendere, pur sinteticamente, l’analisi al contesto italiano e europeo, da Leopardi a Hölderlin (Der Arcipelagus) e a Keats (Ode to a Grecian Urn), fino ai pays chimériques di Baudelaire (Le Voyage).
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100
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Atlantide, poesia europea XIX secolo, Foscolo nella letteratura europea, mito
Lombardi, Chiara
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1535219
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