“Padre era un’aquila: L’uccello potente che fa il nido in alto sopra i suoi simili, che volteggiando veglia i suoi aquilotti, come un re fa la guardia al trono.” Il tono oracolare e favolistico introduce ogni capitolo del romanzo, raccontato in prima persona da Ben, nove anni. La Nigeria degli anni ’90 è un paese dominato da dittature e massacri, dove i ladri colti sul fatto vengono linciati e bruciati. Ben e i suoi tre fratelli maggiori vengono coinvolti direttamente in avvenimenti simili, ma la famiglia Agwu è tutto sommato solida, retta da genitori severi che controllano letture e videogiochi dei figli. Il trasferimento di Padre in un’altra città segna la fine di un eterno presente, e cambia “l’equilibrio delle cose: il tempo e le stagioni e il passato cominciarono a contare, e noi iniziammo a desiderarlo, a bramarlo ancor più del presente e del futuro.” I quattro ragazzi cominciano a pescare nel fiume cittadino, un tempo investito di attributi divini ma ormai insozzato e “fonte di cupe dicerie”, e vengono progressivamente contaminati dal mondo che li circonda. L’incontro decisivo è con il vagabondo-profeta Abulu, la cui sporcizia si accompagna a doti divinatorie, che annuncia l’omicidio del fratello maggiore, Ikenna, per mano di uno di loro. Da quel momento il malinconico Ikenna è tormentato da un pensiero che lo divora: “la paura lo derubò della salute” e “sedimentò in lui l’indiscutibile ineluttabilità dei poteri preveggenti di Abulu, che facevano sorgere fumo da cose non ancora bruciate.” È l'inizio di una serie di tragedie terribili, culminanti in un’ossessione di vendetta contro lo stesso Abulu. L’intera vicenda può venir letta come la distruzione di una famiglia travolta da un caos sociale e morale pervasivo, dove regnano ritorsioni pubbliche e private. Ben viene trascinato a compiere un'assurda vendetta che tutti considerano sacrosanta: fratelli, genitori e persino sacerdoti di quell'evangelismo cristiano imperante nell'Africa odierna. Il legame tra contesto e personaggi è evidente nella valenza simbolica di questa descrizione: “Il pavimento era zuppo del suo sangue: un sangue vivo e mobile che viaggiava lento sotto il frigo, e misteriosamente – come i fiumi Niger e Benue la cui confluenza a Lokoja genera una nazione spezzata e fangosa – si univa all’olio di palma, formando una pozzanghera sinistra di rosso stinto, come quelle che si formano nelle piccole fosse delle strade sterrate.” Nonostante gli incipit favolistici, I pescatori non è un’opera dove la magia dello sguardo infantile, seppur accerchiata da una violenza onnipresente, mantiene una sorta di purezza fiabesca. Ben racconta la storia della sua infanzia spezzata immergendosi nelle profondità del male ad occhi nudi, senza risparmiare le descrizioni più rivoltanti. È uno dei tratti più affascinanti del libro, ma certo non l’unico. Narrato con grande talento (e sapientemente tradotto), questo romanzo d’esordio ha convinto critici e lettori fino ad arrivare tra i finalisti del Man Booker Prize 2015. Obioma ricostruisce l’identità dei due genitori attraverso i loro gesti, dove battere le mani, schioccare le dita, sibilare o tirarsi i lobi delle orecchie assumono un preciso significato; e tramite il loro linguaggio proverbiale, densamente metaforico, tipico della cultura tradizionale. Il lutto di Madre, per esempio, è introdotto da “I ragni erano bestie di pena: Creature che secondo gli igbo fanno il nido nelle case degli afflitti”. Poiché “stai attento” si dice in igbo “contati i denti sulla lingua”, mentre sgridava un figlio “Padre era scoppiato a ridere vedendolo muovere la lingua dentro la bocca, tutto accigliato e sbavante, impegnato a cercare di fare il censimento della propria dentatura.” Proverbialità e ricchezza d’immagini, oltre ad alcuni riferimenti espliciti, richiamano Il crollo di Chinua Achebe (1958; Jaca Book 1976), romanzo fondativo della letteratura africana sulla tragedia personale e collettiva indotta dal colonialismo. Ambientato un secolo più tardi, I pescatori affascina anche per la sua attenzione al multilinguismo della Nigeria contemporanea: genitori e figli parlano igbo ma vivono nel sud-ovest yoruba, idioma parlato da Ben e i suoi fratelli tra di loro e con gli amici; ci sono un paio di pagine con dialoghi in inglese pidgin, l’unica parte in cui la traduzione italiana si rivela infelice. L’inglese standard, invece, è la lingua ufficiale che “aveva il potere di scavare fossati tra te e i tuoi amici o parenti che decidevano di usarla al posto dell’igbo. Quindi i nostri genitori parlavano di rado l’inglese, tranne (…) quando le parole avevano lo scopo di strapparci il terreno da sotto i piedi.”

I ragni sono creature di pena

DEANDREA, Pietro
2016-01-01

Abstract

“Padre era un’aquila: L’uccello potente che fa il nido in alto sopra i suoi simili, che volteggiando veglia i suoi aquilotti, come un re fa la guardia al trono.” Il tono oracolare e favolistico introduce ogni capitolo del romanzo, raccontato in prima persona da Ben, nove anni. La Nigeria degli anni ’90 è un paese dominato da dittature e massacri, dove i ladri colti sul fatto vengono linciati e bruciati. Ben e i suoi tre fratelli maggiori vengono coinvolti direttamente in avvenimenti simili, ma la famiglia Agwu è tutto sommato solida, retta da genitori severi che controllano letture e videogiochi dei figli. Il trasferimento di Padre in un’altra città segna la fine di un eterno presente, e cambia “l’equilibrio delle cose: il tempo e le stagioni e il passato cominciarono a contare, e noi iniziammo a desiderarlo, a bramarlo ancor più del presente e del futuro.” I quattro ragazzi cominciano a pescare nel fiume cittadino, un tempo investito di attributi divini ma ormai insozzato e “fonte di cupe dicerie”, e vengono progressivamente contaminati dal mondo che li circonda. L’incontro decisivo è con il vagabondo-profeta Abulu, la cui sporcizia si accompagna a doti divinatorie, che annuncia l’omicidio del fratello maggiore, Ikenna, per mano di uno di loro. Da quel momento il malinconico Ikenna è tormentato da un pensiero che lo divora: “la paura lo derubò della salute” e “sedimentò in lui l’indiscutibile ineluttabilità dei poteri preveggenti di Abulu, che facevano sorgere fumo da cose non ancora bruciate.” È l'inizio di una serie di tragedie terribili, culminanti in un’ossessione di vendetta contro lo stesso Abulu. L’intera vicenda può venir letta come la distruzione di una famiglia travolta da un caos sociale e morale pervasivo, dove regnano ritorsioni pubbliche e private. Ben viene trascinato a compiere un'assurda vendetta che tutti considerano sacrosanta: fratelli, genitori e persino sacerdoti di quell'evangelismo cristiano imperante nell'Africa odierna. Il legame tra contesto e personaggi è evidente nella valenza simbolica di questa descrizione: “Il pavimento era zuppo del suo sangue: un sangue vivo e mobile che viaggiava lento sotto il frigo, e misteriosamente – come i fiumi Niger e Benue la cui confluenza a Lokoja genera una nazione spezzata e fangosa – si univa all’olio di palma, formando una pozzanghera sinistra di rosso stinto, come quelle che si formano nelle piccole fosse delle strade sterrate.” Nonostante gli incipit favolistici, I pescatori non è un’opera dove la magia dello sguardo infantile, seppur accerchiata da una violenza onnipresente, mantiene una sorta di purezza fiabesca. Ben racconta la storia della sua infanzia spezzata immergendosi nelle profondità del male ad occhi nudi, senza risparmiare le descrizioni più rivoltanti. È uno dei tratti più affascinanti del libro, ma certo non l’unico. Narrato con grande talento (e sapientemente tradotto), questo romanzo d’esordio ha convinto critici e lettori fino ad arrivare tra i finalisti del Man Booker Prize 2015. Obioma ricostruisce l’identità dei due genitori attraverso i loro gesti, dove battere le mani, schioccare le dita, sibilare o tirarsi i lobi delle orecchie assumono un preciso significato; e tramite il loro linguaggio proverbiale, densamente metaforico, tipico della cultura tradizionale. Il lutto di Madre, per esempio, è introdotto da “I ragni erano bestie di pena: Creature che secondo gli igbo fanno il nido nelle case degli afflitti”. Poiché “stai attento” si dice in igbo “contati i denti sulla lingua”, mentre sgridava un figlio “Padre era scoppiato a ridere vedendolo muovere la lingua dentro la bocca, tutto accigliato e sbavante, impegnato a cercare di fare il censimento della propria dentatura.” Proverbialità e ricchezza d’immagini, oltre ad alcuni riferimenti espliciti, richiamano Il crollo di Chinua Achebe (1958; Jaca Book 1976), romanzo fondativo della letteratura africana sulla tragedia personale e collettiva indotta dal colonialismo. Ambientato un secolo più tardi, I pescatori affascina anche per la sua attenzione al multilinguismo della Nigeria contemporanea: genitori e figli parlano igbo ma vivono nel sud-ovest yoruba, idioma parlato da Ben e i suoi fratelli tra di loro e con gli amici; ci sono un paio di pagine con dialoghi in inglese pidgin, l’unica parte in cui la traduzione italiana si rivela infelice. L’inglese standard, invece, è la lingua ufficiale che “aveva il potere di scavare fossati tra te e i tuoi amici o parenti che decidevano di usarla al posto dell’igbo. Quindi i nostri genitori parlavano di rado l’inglese, tranne (…) quando le parole avevano lo scopo di strapparci il terreno da sotto i piedi.”
2016
XXXIII
7/8
27
27
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Obioma; Nigeria; letteratura postcoloniale; fiaba
Deandrea, Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1583202
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