“Non occorre essere specialisti di letteratura africana per accorgersi che Chinua Achebe è uno dei massimi scrittori del secondo '900”, scriveva Daniele Giglioli su questo giornale parecchi anni fa. Come tanti altri, Giglioli lamentava giustamente la scarsa circolazione di Achebe tra i lettori italiani. Milioni di copie vendute all'estero, con decine di traduzioni e il prestigioso Man Booker International Prize nel 2007, non sembrano aver contribuito molto alla sua diffusione nel nostro paese. La fama di Achebe (1930-2013) è dovuta soprattutto al romanzo d'esordio Things Fall Apart (1958), tradotto da noi come Le locuste bianche (Mondadori 1962) e successivamente come Il crollo (Jaca Books 1977, poi ripubblicato da e/o). Con grande merito, La nave di Teseo lo ripubblica ora col titolo Le cose crollano (pp. 202, € 18), in una nuova traduzione di Alberto Pezzotta. Il crollo è quello delle popolazioni igbo del sud-est dell'odierna Nigeria, che nella prima parte del libro non hanno ancora incontrato gli invasori europei. Achebe tratteggia i meccanismi sociali, morali ed economici di una società agricola e ciclica, fondata sulla continuità tra realtà quotidiana e dimensione trascendente di dèi e antenati. Il tutto attraverso un linguaggio – aspetto fondamentale dell'opera – che riproduce in forma scritta l'oralità metaforica, favolistica e proverbiale della lingua igbo, dove “l'arte della conversazione è tenuta in gran conto, e i proverbi sono l'olio di palma con cui vengono condite le parole.” Così, nel solco dell'arte dei cantastorie, digressioni e flashback apparentemente dispersivi finiscono per dare un senso più compiuto alla trama principale. Dopo secoli di narrazioni straniere sull'Africa, nel 1958 Achebe capovolge quindi il punto di vista coloniale con una storia narrata dalla prospettiva dei vinti, portando sulla scena mondiale quelle letterature africane in lingue europee che avrebbero svolto un ruolo essenziale per le rivendicazioni dei movimenti indipendentisti. La famosa polemica sul supposto razzismo di Cuore di tenebra di Conrad, che Achebe scatenerà con un suo saggio del 1977, qui si concretizza nel suono del tamburo: se per Conrad incarnava l'orrore delle pulsioni umane più oscure, per Achebe rappresenta un segno identitario, “e il loro ritmo convulso non era più un suono esterno, ma il vero e proprio battito di un cuore collettivo.” Rimodellando il genere del romanzo europeo, Achebe ritrae una comunità attorno alla parabola del tormentato protagonista Okonkwo, che gli permette di smentire il luogo comune secondo cui il romanzo 'orale' africano sarebbe incapace di introspezione. Figlio di un inconcludente sognatore pieno di debiti, Okonkwo si rivela “dominato da un'unica passione: odiare tutto ciò che aveva amato suo padre. Una di queste cose era la gentilezza, l'altra era l'ozio.” Così, nella sua ossessiva rincorsa verso onoreficenze e conquiste in battaglia, perde ogni capacità di esprimere il proprio lato più emotivo (disprezzato come 'femminile') fino a giustiziare spontaneamente il figlio adottivo Ike, cui è molto legato, solo per soddisfare la richiesta di un oracolo. Okonkwo incarna quell'aspetto della cultura igbo che non si prende cura dei più deboli, degli schiavi, dei parti gemellari abbandonati nella foresta, degli intoccabili osu. I primi evangelizzatori europei giungono nella seconda e terza parte del libro (che non a caso presentano uno sviluppo narrativo molto più lineare), e fanno breccia proprio tra gli esclusi e i marginalizzati. Tra questi c'è Nwoye, figlio maggiore di Okonkwo e prima vittima della violenza paterna, affascinato dalla “poesia di questa nuova religione” e dai suoi canti: “mentre l'inno si riversava nella sua anima assetata, aveva avvertito un senso di conforto dentro di sé. Le parole erano come gocce di pioggia gelata che si scioglievano sul palato riarso della terra ansimante.” Il colonialismo è stato anche, quindi, strumento di liberazione: uno degli aspetti dirompenti del romanzo sta proprio nel suo realismo, nel rifiuto di romanticizzare un continente già ampiamente distorto da visioni europee demonizzanti – e da quelle idealizzanti di movimenti culturali come la Négritude. Un altro stereotipo smontato da Achebe è quello dell'Africa come entità culturalmente omogenea: nel romanzo neanche gli igbo lo sono, essendo storicamente formati da una grande varietà di unità locali indipendenti che prendono decisioni in modo collettivo. Quando ai predicatori si aggiungono commercianti, soldati e amministratori, che cercano i leader locali per far loro esercitare il 'governo indiretto' che contraddistingueva l'imperialismo britannico, si sentono dire che questi villaggi non hanno un re, ma “abbiamo gli uomini di alto titolo, i sacerdoti e gli anziani.” Alla fine, il crollo di questo sistema secolare terrorizza Okonkwo, che immagina “se stesso e suo padre stringersi nel tempio ancestrale nella vana attesa di cerimonie e sacrifici, senza trovare altro che le ceneri dei tempi andati, mentre i suoi figli pregavano il dio dell'uomo bianco.” Questa nuova traduzione talvolta eccede nel normalizzare l'originale, asciugandolo di ripetizioni che, per quanto ridondanti, sono un elemento cruciale dell'oralità. Ma è molto attenta nel seguire il rigore formale del romanzo, oltre ad aggiungere un utilissimo glossario in appendice. E davvero speriamo che possa portare la parola di Achebe al grande pubblico italiano.

La tormentata parabola dei vinti, nel favolistico linguaggio del popolo Igbo

DEANDREA, Pietro
2016-01-01

Abstract

“Non occorre essere specialisti di letteratura africana per accorgersi che Chinua Achebe è uno dei massimi scrittori del secondo '900”, scriveva Daniele Giglioli su questo giornale parecchi anni fa. Come tanti altri, Giglioli lamentava giustamente la scarsa circolazione di Achebe tra i lettori italiani. Milioni di copie vendute all'estero, con decine di traduzioni e il prestigioso Man Booker International Prize nel 2007, non sembrano aver contribuito molto alla sua diffusione nel nostro paese. La fama di Achebe (1930-2013) è dovuta soprattutto al romanzo d'esordio Things Fall Apart (1958), tradotto da noi come Le locuste bianche (Mondadori 1962) e successivamente come Il crollo (Jaca Books 1977, poi ripubblicato da e/o). Con grande merito, La nave di Teseo lo ripubblica ora col titolo Le cose crollano (pp. 202, € 18), in una nuova traduzione di Alberto Pezzotta. Il crollo è quello delle popolazioni igbo del sud-est dell'odierna Nigeria, che nella prima parte del libro non hanno ancora incontrato gli invasori europei. Achebe tratteggia i meccanismi sociali, morali ed economici di una società agricola e ciclica, fondata sulla continuità tra realtà quotidiana e dimensione trascendente di dèi e antenati. Il tutto attraverso un linguaggio – aspetto fondamentale dell'opera – che riproduce in forma scritta l'oralità metaforica, favolistica e proverbiale della lingua igbo, dove “l'arte della conversazione è tenuta in gran conto, e i proverbi sono l'olio di palma con cui vengono condite le parole.” Così, nel solco dell'arte dei cantastorie, digressioni e flashback apparentemente dispersivi finiscono per dare un senso più compiuto alla trama principale. Dopo secoli di narrazioni straniere sull'Africa, nel 1958 Achebe capovolge quindi il punto di vista coloniale con una storia narrata dalla prospettiva dei vinti, portando sulla scena mondiale quelle letterature africane in lingue europee che avrebbero svolto un ruolo essenziale per le rivendicazioni dei movimenti indipendentisti. La famosa polemica sul supposto razzismo di Cuore di tenebra di Conrad, che Achebe scatenerà con un suo saggio del 1977, qui si concretizza nel suono del tamburo: se per Conrad incarnava l'orrore delle pulsioni umane più oscure, per Achebe rappresenta un segno identitario, “e il loro ritmo convulso non era più un suono esterno, ma il vero e proprio battito di un cuore collettivo.” Rimodellando il genere del romanzo europeo, Achebe ritrae una comunità attorno alla parabola del tormentato protagonista Okonkwo, che gli permette di smentire il luogo comune secondo cui il romanzo 'orale' africano sarebbe incapace di introspezione. Figlio di un inconcludente sognatore pieno di debiti, Okonkwo si rivela “dominato da un'unica passione: odiare tutto ciò che aveva amato suo padre. Una di queste cose era la gentilezza, l'altra era l'ozio.” Così, nella sua ossessiva rincorsa verso onoreficenze e conquiste in battaglia, perde ogni capacità di esprimere il proprio lato più emotivo (disprezzato come 'femminile') fino a giustiziare spontaneamente il figlio adottivo Ike, cui è molto legato, solo per soddisfare la richiesta di un oracolo. Okonkwo incarna quell'aspetto della cultura igbo che non si prende cura dei più deboli, degli schiavi, dei parti gemellari abbandonati nella foresta, degli intoccabili osu. I primi evangelizzatori europei giungono nella seconda e terza parte del libro (che non a caso presentano uno sviluppo narrativo molto più lineare), e fanno breccia proprio tra gli esclusi e i marginalizzati. Tra questi c'è Nwoye, figlio maggiore di Okonkwo e prima vittima della violenza paterna, affascinato dalla “poesia di questa nuova religione” e dai suoi canti: “mentre l'inno si riversava nella sua anima assetata, aveva avvertito un senso di conforto dentro di sé. Le parole erano come gocce di pioggia gelata che si scioglievano sul palato riarso della terra ansimante.” Il colonialismo è stato anche, quindi, strumento di liberazione: uno degli aspetti dirompenti del romanzo sta proprio nel suo realismo, nel rifiuto di romanticizzare un continente già ampiamente distorto da visioni europee demonizzanti – e da quelle idealizzanti di movimenti culturali come la Négritude. Un altro stereotipo smontato da Achebe è quello dell'Africa come entità culturalmente omogenea: nel romanzo neanche gli igbo lo sono, essendo storicamente formati da una grande varietà di unità locali indipendenti che prendono decisioni in modo collettivo. Quando ai predicatori si aggiungono commercianti, soldati e amministratori, che cercano i leader locali per far loro esercitare il 'governo indiretto' che contraddistingueva l'imperialismo britannico, si sentono dire che questi villaggi non hanno un re, ma “abbiamo gli uomini di alto titolo, i sacerdoti e gli anziani.” Alla fine, il crollo di questo sistema secolare terrorizza Okonkwo, che immagina “se stesso e suo padre stringersi nel tempio ancestrale nella vana attesa di cerimonie e sacrifici, senza trovare altro che le ceneri dei tempi andati, mentre i suoi figli pregavano il dio dell'uomo bianco.” Questa nuova traduzione talvolta eccede nel normalizzare l'originale, asciugandolo di ripetizioni che, per quanto ridondanti, sono un elemento cruciale dell'oralità. Ma è molto attenta nel seguire il rigore formale del romanzo, oltre ad aggiungere un utilissimo glossario in appendice. E davvero speriamo che possa portare la parola di Achebe al grande pubblico italiano.
2016
30 otttobre 2016
4
4
http://ilmanifesto.info/sezioni/alias/
Nigeria, Igbo, Achebe, letterature postcoloniali
Pietro, Deandrea
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1611488
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