Nonostante decenni di critica letteraria volta a smontarne lo straordinario congegno formale, The Turn of the Screw, la celebre ghost story di Henry James, continua a prendere in trappola il lettore, ripetendo all’infinito la sfida lanciata dal suo autore. “Al di là delle mille rifrazioni metanarrative,” scriveva Giovanna Mochi, resta nella novella di James “una zona d’ombra, uno spazio autonomo e intangibile, sulla cui soglia ancora ci fermiamo, attoniti, ad ascoltare la nostra paura e la nostra emozione”: è questa zona d’ombra che continua ad interrogare il lettore e ad alimentare le trasposizioni e le riscritture della storia. Fra queste, particolarmente interessante è a nostro avviso quella offerta dal film di Jack Clayton, The Innocents (1961), nella misura in cui riesce a cogliere la sfida formale della narrazione di James e ad affrontarla in maniera pienamente e orgogliosamente cinematografica. Tenteremo qui di analizzarlo a partire dai problemi essenziali posti dal testo di James alla traduzione filmica. Come preservare, innanzi tutto, la preziosa inconsistenza della storia, intessuta di spazi vuoti, di non detti, di frasi non finite, di idee non elaborate, all’interno di un medium che tramite la macchina da presa espande le possibilità della nostra percezione, rischiando inevitabilmente di mostrare troppo ? Come gestire inoltre, a livello filmico, l’uso complesso del punto di vista, a partire dal quale la novella rielaborava le convenzioni della ghost story ? Figura essenziale di questa sfida lanciata alla trasposizione cinematografica sono i due fantasmi intorno a cui ruota la storia, calchi vuoti di male che l’immaginazione del lettore di James si trova a riempire con le proprie paure e i propri orrori personali e che il cinema è costretto in qualche modo a definire e delimitare entro un’immagine ottica. Come sono, dunque, i fantasmi di Clayton? In che misura e in che modo riescono a tradurre l’elusiva presenza maligna dei fantasmi jamesiani? Come può lo spettatore, posto direttamente di fronte alla presenza visiva di quelle figure, dubitare della loro esistenza all’interno della storia? “Do you have an imagination?”, chiede il master all’istitutrice all’inizio del film: è questa la domanda che il film stesso pone allo spettatore, invitandolo a lasciarsi intrappolare ancora nella storia inventata da James, che traducendosi in immagine necessariamente si modifica, offrendo alcune delle risposte negate dalla narrazione ma allo stesso tempo aprendo altri spazi vuoti, altre possibili piste di significato destinate, ancora una volta, ad avvitarsi vertiginosamente su se stesse.

"Do you have an imagination?" The Turn of the Screw di fronte alla macchina da presa di Jack Clayton

CARMAGNANI, PAOLA
2015-01-01

Abstract

Nonostante decenni di critica letteraria volta a smontarne lo straordinario congegno formale, The Turn of the Screw, la celebre ghost story di Henry James, continua a prendere in trappola il lettore, ripetendo all’infinito la sfida lanciata dal suo autore. “Al di là delle mille rifrazioni metanarrative,” scriveva Giovanna Mochi, resta nella novella di James “una zona d’ombra, uno spazio autonomo e intangibile, sulla cui soglia ancora ci fermiamo, attoniti, ad ascoltare la nostra paura e la nostra emozione”: è questa zona d’ombra che continua ad interrogare il lettore e ad alimentare le trasposizioni e le riscritture della storia. Fra queste, particolarmente interessante è a nostro avviso quella offerta dal film di Jack Clayton, The Innocents (1961), nella misura in cui riesce a cogliere la sfida formale della narrazione di James e ad affrontarla in maniera pienamente e orgogliosamente cinematografica. Tenteremo qui di analizzarlo a partire dai problemi essenziali posti dal testo di James alla traduzione filmica. Come preservare, innanzi tutto, la preziosa inconsistenza della storia, intessuta di spazi vuoti, di non detti, di frasi non finite, di idee non elaborate, all’interno di un medium che tramite la macchina da presa espande le possibilità della nostra percezione, rischiando inevitabilmente di mostrare troppo ? Come gestire inoltre, a livello filmico, l’uso complesso del punto di vista, a partire dal quale la novella rielaborava le convenzioni della ghost story ? Figura essenziale di questa sfida lanciata alla trasposizione cinematografica sono i due fantasmi intorno a cui ruota la storia, calchi vuoti di male che l’immaginazione del lettore di James si trova a riempire con le proprie paure e i propri orrori personali e che il cinema è costretto in qualche modo a definire e delimitare entro un’immagine ottica. Come sono, dunque, i fantasmi di Clayton? In che misura e in che modo riescono a tradurre l’elusiva presenza maligna dei fantasmi jamesiani? Come può lo spettatore, posto direttamente di fronte alla presenza visiva di quelle figure, dubitare della loro esistenza all’interno della storia? “Do you have an imagination?”, chiede il master all’istitutrice all’inizio del film: è questa la domanda che il film stesso pone allo spettatore, invitandolo a lasciarsi intrappolare ancora nella storia inventata da James, che traducendosi in immagine necessariamente si modifica, offrendo alcune delle risposte negate dalla narrazione ma allo stesso tempo aprendo altri spazi vuoti, altre possibili piste di significato destinate, ancora una volta, ad avvitarsi vertiginosamente su se stesse.
2015
15-16
I-II
173
243
Letteratura, Cinema, Adattamenti, Henry James, Jack Clayton
Carmagnani Paola
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