Il 9 novembre 1972 Idi Amin espelle più di ottantamila persone di origine indiana dall’Uganda. Una parte di loro sono cittadini ugandesi, trasformati arbitrariamente in apolidi da una brutale e grottesca dittatura. La canadese Tasneem Jamal parte dalle memorie di famiglia per narrare una diaspora poco conosciuta in Italia, e già questo basterebbe a rendere importante la lettura di Dove l’aria è più dolce (Nuova Editrice Berti, pp. 349, € 18, scorrevolissima traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi). Ma Jamal non si limita a raccontare le piccole vittime schiacciate dalla grande Storia. Il romanzo è anche un’elegia sul senso di incompletezza proprio dell’umano, e ancor più caratteristico dell’umanità migrante. Già a tre anni, nel 1904, molto prima di trasferirsi dall’India in Uganda, il capofamiglia Raju prova una persistente “sorta di dolore, il rimpianto per qualcosa che ancora non riusciva ad immaginare.” I suoi figli e nipoti soffrono di simili mancanze, che troveranno un’incarnazione storica nell’esilio forzato del 1972. Sono soprattutto le donne della famiglia a convivere con voragini affettive, come Rehmat, moglie di Raju, costretta al silenzio dall’oppressione patriarcale, ma la cui sensibilità si eleva nei momenti più intensi dell’opera; quando la nipotina Shama vuole sapere perché il consiglio comunale di Leicester ha messo un annuncio su un giornale ugandese per far sapere agli asiatici espulsi che non saranno i benvenuti, Rehmat risponde “Quando la gente ha paura, manda via gli altri, quelli diversi (…) perché ha paura di essere mandata via a sua volta. E non è forte.” L’altra protagonista del romanzo è Mumtaz, madre di Shama, capace di conquistare rispetto rispettando gli altri ma soprattutto se stessa, e non accettando mai di farsi escludere dalle conversazioni maschili sulla tragedia in arrivo o di leggere questa tragedia attraverso lo stereotipo della barbarie africana. Con l’avanzare delle ondate di insensata violenza, gli unici a non sbandare sono Mumtaz e il suocero Raju, accomunati da un senso critico folgorante quanto sommesso. La cifra stilistica del romanzo, costruito su scene brevi, è in sintonia con i vuoti e i silenzi su cui si fonda la vicenda. I momenti di grande intensità sono numerosi, ma Jamal crea una poesia del quotidiano lavorando per sottrazioni, fermandosi a un passo dalla frase che potrebbe chiudere il cerchio ed incarnare il senso della scena – frase che il lettore è implicitamente invitato a immaginare. Quando nessuno sospetta la carneficina tribale messa in atto dai soldati di Amin, Raju vede per caso due cadaveri galleggiare nel fiume, ma poi accetta (poco convinto) di essersi sbagliato: “Mentre avvicina a sé la scatola di tabacco, sente qualcosa allo stomaco, uno sfarfallio, uno svolazzo, una punzecchiatura. È solo accennato, non è forte, ma ha gli spigoli acuminati.” Jamal dipinge una galleria di personaggi estremamente vari e caratterizzati (con alcune memorabili figure minori). Bahdur, il figlio più sensibile di Raju e Rehmat, lo dice a proposito di sé e dei suoi numerosi fratelli: “Siamo tutti diversissimi”. Raju ne rimane colpito: “Gli aveva sfiorato la testa con le dita: voleva tranquillizzarlo. Pareva che in quel momento avesse troppi pensieri, più di quanti un bambino possa sopportarne.” Come spesso accade, sono i bambini a cristallizzare le ingiustizie della Storia. Nel vedere i fiori che crescono sui fossati lungo le strade, Shama domanda: “Come fanno a salire verso il cielo, verso il sole, se nessuno li protegge?”

In memoria di una carneficina tribale, ordinata da Idi Amin contro gli indiani dell'Uganda: Tasneem Jamal, "Dove l'aria è più dolce", Nuova Editrice Berti

DEANDREA, Pietro
2017-01-01

Abstract

Il 9 novembre 1972 Idi Amin espelle più di ottantamila persone di origine indiana dall’Uganda. Una parte di loro sono cittadini ugandesi, trasformati arbitrariamente in apolidi da una brutale e grottesca dittatura. La canadese Tasneem Jamal parte dalle memorie di famiglia per narrare una diaspora poco conosciuta in Italia, e già questo basterebbe a rendere importante la lettura di Dove l’aria è più dolce (Nuova Editrice Berti, pp. 349, € 18, scorrevolissima traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi). Ma Jamal non si limita a raccontare le piccole vittime schiacciate dalla grande Storia. Il romanzo è anche un’elegia sul senso di incompletezza proprio dell’umano, e ancor più caratteristico dell’umanità migrante. Già a tre anni, nel 1904, molto prima di trasferirsi dall’India in Uganda, il capofamiglia Raju prova una persistente “sorta di dolore, il rimpianto per qualcosa che ancora non riusciva ad immaginare.” I suoi figli e nipoti soffrono di simili mancanze, che troveranno un’incarnazione storica nell’esilio forzato del 1972. Sono soprattutto le donne della famiglia a convivere con voragini affettive, come Rehmat, moglie di Raju, costretta al silenzio dall’oppressione patriarcale, ma la cui sensibilità si eleva nei momenti più intensi dell’opera; quando la nipotina Shama vuole sapere perché il consiglio comunale di Leicester ha messo un annuncio su un giornale ugandese per far sapere agli asiatici espulsi che non saranno i benvenuti, Rehmat risponde “Quando la gente ha paura, manda via gli altri, quelli diversi (…) perché ha paura di essere mandata via a sua volta. E non è forte.” L’altra protagonista del romanzo è Mumtaz, madre di Shama, capace di conquistare rispetto rispettando gli altri ma soprattutto se stessa, e non accettando mai di farsi escludere dalle conversazioni maschili sulla tragedia in arrivo o di leggere questa tragedia attraverso lo stereotipo della barbarie africana. Con l’avanzare delle ondate di insensata violenza, gli unici a non sbandare sono Mumtaz e il suocero Raju, accomunati da un senso critico folgorante quanto sommesso. La cifra stilistica del romanzo, costruito su scene brevi, è in sintonia con i vuoti e i silenzi su cui si fonda la vicenda. I momenti di grande intensità sono numerosi, ma Jamal crea una poesia del quotidiano lavorando per sottrazioni, fermandosi a un passo dalla frase che potrebbe chiudere il cerchio ed incarnare il senso della scena – frase che il lettore è implicitamente invitato a immaginare. Quando nessuno sospetta la carneficina tribale messa in atto dai soldati di Amin, Raju vede per caso due cadaveri galleggiare nel fiume, ma poi accetta (poco convinto) di essersi sbagliato: “Mentre avvicina a sé la scatola di tabacco, sente qualcosa allo stomaco, uno sfarfallio, uno svolazzo, una punzecchiatura. È solo accennato, non è forte, ma ha gli spigoli acuminati.” Jamal dipinge una galleria di personaggi estremamente vari e caratterizzati (con alcune memorabili figure minori). Bahdur, il figlio più sensibile di Raju e Rehmat, lo dice a proposito di sé e dei suoi numerosi fratelli: “Siamo tutti diversissimi”. Raju ne rimane colpito: “Gli aveva sfiorato la testa con le dita: voleva tranquillizzarlo. Pareva che in quel momento avesse troppi pensieri, più di quanti un bambino possa sopportarne.” Come spesso accade, sono i bambini a cristallizzare le ingiustizie della Storia. Nel vedere i fiori che crescono sui fossati lungo le strade, Shama domanda: “Come fanno a salire verso il cielo, verso il sole, se nessuno li protegge?”
2017
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30
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www.ilmanifesto.it
Jamal, migrazioni, diaspora indiana, Uganda, Canada
P. Deandrea
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1646272
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