“C’è un posto dove puoi annusare il piacere della terra / quando senti cadere le gocce pesanti delle prime piogge.” Fin dai primi versi di questa raccolta, la voce poetica si dichiara legata a filo doppio con il luogo d’origine. Ma è un rapporto declinato con i toni dell’elegia, perché questo luogo è il Kurdistan, da dove l’autrice ha dovuto fuggire per due volte. Infatti quel primo componimento passa dal “c’è” al “c’era”. Sono luoghi che “ci perseguitano, ci appaiono in sogno”, che nell’esilio vengono risvegliati nella mente dai dettagli più banali, “quando una filastrocca ti è entrata come un’intrusa nella testa”. Le poesie qui selezionate da Paola Splendore mettono a nudo il dramma del Kurdistan, la violenza impietosa di un’oppressione militarizzata che si scatena da decenni con incarcerazioni, torture, omicidi, massacrando centinaia di migliaia di persone, e che ha raggiunto il suo culmine nei tardi anni ’80 con l’uso di gas tossici, qui presentato nella concretezza dei suoi effetti: “la gente impazzì – / rideva, si piegava sulle ginocchia, si torceva, correva / alla sorgente, accecata, sbatteva negli alberi.” Alcune poesie descrivono le deportazioni di massa, con evidenti echi concentrazionari: di uomini e ragazzi portati via legàti su camion, “Cosa è rimasto di loro? Pettini, / rosari, specchi, carte d’identità, in un mucchio, a inzupparsi di pioggia.” È un vero e proprio inferno sulla terra, con un cane nero che scava nelle tombe per mangiarsi i morti: “Gli ho visto in bocca i vestiti / di mio cugino, quelli con cui lo avevamo seppellito.” La violenza pervasiva distorce anche la natura, come gli alberi colpevoli di offrire frescura e rifugio, e gli oggetti più innocui, come la corda usata per il gioco dei bambini. L’infanzia fatica a sopravvivere, e a comprendere concetti assurdi come i confini: “ho la gamba destra in questo paese / e la sinistra nell’altro”, dice divertita la sorella dell’autrice prima di farsi sgridare dalle guardie di frontiera. La fuga diventa così condizione perenne che convive con il rimpianto elegiaco di cui sopra. Anche la fuga avviene in condizioni ambientali terribili, con cadaveri congelati rimasti in piedi. In momenti come questi il verso di Hardi sa farsi più figurato, come nelle istruzioni della poesia “Prima di partire”: “Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta / ogni parola separata dall’altra / per non farle scontrare, graffiare. (…) Trascinati dietro le scuole mentre vai, / le panche imploranti, / le lezioni di lacrime.” O come in “I libri di mio padre”, che prendono vita propria per disperdersi, “scegliendo destini diversi”. In quale altro modo farsi una ragione di un evento così traumatizzante come l’esilio dalla propria terra? Come altro descrivere un corpo martoriato dai gas tossici, se non come un fiore: “Perdo petali ogni notte / e il materasso diventa un letto di rose – nere, / rosso-ciliegia, rosa e oro.” Ma immagini così surreali spiccano in questi versi dove la cifra dominante, scrive giustamente Splendore, è la “loro disarmata semplicità, nelle poche similitudini e metafore presenti, nella concretezza dei dettagli e delle scene evocate”. Ospite al Festival di Mantova e intervistata da Alessandra Pigliaru del Manifesto (8/9/2016), Hardi ricordava come all’inizio scrivesse con rabbia e sentimentalismo, così “mi sono esercitata nella distanza”, anche grazie al passaggio dalla lingua madre curda all’inglese. Il risultato finale di questo procedere per sottrazione sono versi scarni e affilati, esempio magistrale di poesia-testimonianza. Come scrive Hardi ne “Il mio paese”: “Canto il mio paese per il silenzio che lo circonda. / Ricordo un paese che tutti gli altri / hanno dimenticato.” L’autrice raccoglie voci e accumula dentro di sé un dolore infinito, di cui sente il peso opprimente, ma sempre grazie alla poesia può ancora scrivere “immagino”, sognare un paese diverso perché, ha dichiarato in quell’intervista, “la nudità della poesia è l’ago paziente disposto al rammendo, ripara e ricostruisce ciò che sembra impossibile da riconoscere.”

Choman Hardi: La crudeltà ci colse di sorpresa -- Poesie dal Kurdistan

Deandrea Pietro
2017-01-01

Abstract

“C’è un posto dove puoi annusare il piacere della terra / quando senti cadere le gocce pesanti delle prime piogge.” Fin dai primi versi di questa raccolta, la voce poetica si dichiara legata a filo doppio con il luogo d’origine. Ma è un rapporto declinato con i toni dell’elegia, perché questo luogo è il Kurdistan, da dove l’autrice ha dovuto fuggire per due volte. Infatti quel primo componimento passa dal “c’è” al “c’era”. Sono luoghi che “ci perseguitano, ci appaiono in sogno”, che nell’esilio vengono risvegliati nella mente dai dettagli più banali, “quando una filastrocca ti è entrata come un’intrusa nella testa”. Le poesie qui selezionate da Paola Splendore mettono a nudo il dramma del Kurdistan, la violenza impietosa di un’oppressione militarizzata che si scatena da decenni con incarcerazioni, torture, omicidi, massacrando centinaia di migliaia di persone, e che ha raggiunto il suo culmine nei tardi anni ’80 con l’uso di gas tossici, qui presentato nella concretezza dei suoi effetti: “la gente impazzì – / rideva, si piegava sulle ginocchia, si torceva, correva / alla sorgente, accecata, sbatteva negli alberi.” Alcune poesie descrivono le deportazioni di massa, con evidenti echi concentrazionari: di uomini e ragazzi portati via legàti su camion, “Cosa è rimasto di loro? Pettini, / rosari, specchi, carte d’identità, in un mucchio, a inzupparsi di pioggia.” È un vero e proprio inferno sulla terra, con un cane nero che scava nelle tombe per mangiarsi i morti: “Gli ho visto in bocca i vestiti / di mio cugino, quelli con cui lo avevamo seppellito.” La violenza pervasiva distorce anche la natura, come gli alberi colpevoli di offrire frescura e rifugio, e gli oggetti più innocui, come la corda usata per il gioco dei bambini. L’infanzia fatica a sopravvivere, e a comprendere concetti assurdi come i confini: “ho la gamba destra in questo paese / e la sinistra nell’altro”, dice divertita la sorella dell’autrice prima di farsi sgridare dalle guardie di frontiera. La fuga diventa così condizione perenne che convive con il rimpianto elegiaco di cui sopra. Anche la fuga avviene in condizioni ambientali terribili, con cadaveri congelati rimasti in piedi. In momenti come questi il verso di Hardi sa farsi più figurato, come nelle istruzioni della poesia “Prima di partire”: “Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta / ogni parola separata dall’altra / per non farle scontrare, graffiare. (…) Trascinati dietro le scuole mentre vai, / le panche imploranti, / le lezioni di lacrime.” O come in “I libri di mio padre”, che prendono vita propria per disperdersi, “scegliendo destini diversi”. In quale altro modo farsi una ragione di un evento così traumatizzante come l’esilio dalla propria terra? Come altro descrivere un corpo martoriato dai gas tossici, se non come un fiore: “Perdo petali ogni notte / e il materasso diventa un letto di rose – nere, / rosso-ciliegia, rosa e oro.” Ma immagini così surreali spiccano in questi versi dove la cifra dominante, scrive giustamente Splendore, è la “loro disarmata semplicità, nelle poche similitudini e metafore presenti, nella concretezza dei dettagli e delle scene evocate”. Ospite al Festival di Mantova e intervistata da Alessandra Pigliaru del Manifesto (8/9/2016), Hardi ricordava come all’inizio scrivesse con rabbia e sentimentalismo, così “mi sono esercitata nella distanza”, anche grazie al passaggio dalla lingua madre curda all’inglese. Il risultato finale di questo procedere per sottrazione sono versi scarni e affilati, esempio magistrale di poesia-testimonianza. Come scrive Hardi ne “Il mio paese”: “Canto il mio paese per il silenzio che lo circonda. / Ricordo un paese che tutti gli altri / hanno dimenticato.” L’autrice raccoglie voci e accumula dentro di sé un dolore infinito, di cui sente il peso opprimente, ma sempre grazie alla poesia può ancora scrivere “immagino”, sognare un paese diverso perché, ha dichiarato in quell’intervista, “la nudità della poesia è l’ago paziente disposto al rammendo, ripara e ricostruisce ciò che sembra impossibile da riconoscere.”
2017
LVI
1
125
126
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Poesia, Kurdistan, Hardi, anglofonia
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1671234
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