Nella Nigeria meridionale urbanizzata, la protagonista si sposa per amore. Il matrimonio però non produce la tanto agognata prole, e da qui nasce una serie infinita di sofferenze, incomprensioni (anche violente), traumi, segreti inconfessabili e colpi di scena che coprono un lungo arco di tempo dalla metà degli anni ’80 fino al 2008. Ecco, in soldoni, la trama di Resta con me, recente romanzo finalista in parecchi premi letterari e già portato alla fama da recensori autorevoli. Non c’è che dire, l’autrice conosce il mestiere: queste 300 pagine si leggono d’un fiato, anche grazie a un’ottima traduzione. L’effetto che lasciano, però, è simile a quello di un blockbuster hollywoodiano al cinema, quando alla fine si riprende fiato e ci si domanda: “Va bene, ma cos’è che ho visto, esattamente?” A me sembra di aver letto una storia che, per quanto ben congegnata, cerca fondamentalmente di soddisfare certi pruriti africanofili o africanofobi del pubblico. Ci sono le credenze tradizionali retrograde e i guaritori ciarlatani, ma anche le favole che danno un poetico tocco di folclore; il crimine comune e la politica dittatoriale efferata degli ultimi decenni, comprese le elezioni annullate del 1993; e il mondo femminile che trova espressione anche attraverso acconciature e saloni di bellezza (elemento già portato in primo piano dalla connazionale Chimamanda Ngozi Adichie in Americanah). Ma tutti questi aspetti del contesto entrano in scena in maniera superficiale, quasi mai articolata, come per soddisfare l’obbligo di dare pennellate d’esotico-contemporaneo e costruire così l’africanità del quadro complessivo. Il nocciolo duro della vicenda è fatto di sentimenti privati e personali. In sé, questo aspetto non implica nulla di negativo, anzi: lo stereotipo che vuole la letteratura africana necessariamente concentrata solo sulla dimensione pubblica/politica è stato smantellato da lungo tempo, a partire dal romanzo Changes: A Love Story (1991) della ghanese Ama Ata Aidoo, per arrivare al magistrale sberleffo dell’articolo “How to Write about Africa” (2006) di Binyavanga Wainaina, che ridicolizzava tutti gli stereotipi sul ‘continente nero’. Il punto è che Resta con me affronta il privato e i sentimenti con cadute piuttosto banali, tipo “la sua bocca fermò il tempo” per descrivere un bacio; oppure, “tutto il caos di amore e di vita che scopri solo vivendo”. Sono un grande estimatore de La nave di Teseo, il cui catalogo talvolta mi suscita vero e proprio entusiasmo, e non solo sul versante africano. Se la ripubblicazione (con ri-traduzione!) dei capolavori di Chinua Achebe è stata una scelta da applaudire, il romanzo inedito di Giorgio Scerbanenco (L’isola degli idealisti) e la biografia dello stesso autore (Il fabbricante di storie) mi hanno fatto letteralmente correre in libreria. Pubblicare Resta con me, invece, mi sembra un mezzo passo falso, probabilmente figlio di una vecchia abitudine a fidarsi ciecamente di premi letterari e recensori di peso. Forse sarebbe bastato riflettere sulla parte finale della trama, dove c’è una carrambata che metterebbe in imbarazzo anche il più distratto lettore fornito di ombrellone o comodino.

Pennellate d'esotico

Deandrea Pietro
2018-01-01

Abstract

Nella Nigeria meridionale urbanizzata, la protagonista si sposa per amore. Il matrimonio però non produce la tanto agognata prole, e da qui nasce una serie infinita di sofferenze, incomprensioni (anche violente), traumi, segreti inconfessabili e colpi di scena che coprono un lungo arco di tempo dalla metà degli anni ’80 fino al 2008. Ecco, in soldoni, la trama di Resta con me, recente romanzo finalista in parecchi premi letterari e già portato alla fama da recensori autorevoli. Non c’è che dire, l’autrice conosce il mestiere: queste 300 pagine si leggono d’un fiato, anche grazie a un’ottima traduzione. L’effetto che lasciano, però, è simile a quello di un blockbuster hollywoodiano al cinema, quando alla fine si riprende fiato e ci si domanda: “Va bene, ma cos’è che ho visto, esattamente?” A me sembra di aver letto una storia che, per quanto ben congegnata, cerca fondamentalmente di soddisfare certi pruriti africanofili o africanofobi del pubblico. Ci sono le credenze tradizionali retrograde e i guaritori ciarlatani, ma anche le favole che danno un poetico tocco di folclore; il crimine comune e la politica dittatoriale efferata degli ultimi decenni, comprese le elezioni annullate del 1993; e il mondo femminile che trova espressione anche attraverso acconciature e saloni di bellezza (elemento già portato in primo piano dalla connazionale Chimamanda Ngozi Adichie in Americanah). Ma tutti questi aspetti del contesto entrano in scena in maniera superficiale, quasi mai articolata, come per soddisfare l’obbligo di dare pennellate d’esotico-contemporaneo e costruire così l’africanità del quadro complessivo. Il nocciolo duro della vicenda è fatto di sentimenti privati e personali. In sé, questo aspetto non implica nulla di negativo, anzi: lo stereotipo che vuole la letteratura africana necessariamente concentrata solo sulla dimensione pubblica/politica è stato smantellato da lungo tempo, a partire dal romanzo Changes: A Love Story (1991) della ghanese Ama Ata Aidoo, per arrivare al magistrale sberleffo dell’articolo “How to Write about Africa” (2006) di Binyavanga Wainaina, che ridicolizzava tutti gli stereotipi sul ‘continente nero’. Il punto è che Resta con me affronta il privato e i sentimenti con cadute piuttosto banali, tipo “la sua bocca fermò il tempo” per descrivere un bacio; oppure, “tutto il caos di amore e di vita che scopri solo vivendo”. Sono un grande estimatore de La nave di Teseo, il cui catalogo talvolta mi suscita vero e proprio entusiasmo, e non solo sul versante africano. Se la ripubblicazione (con ri-traduzione!) dei capolavori di Chinua Achebe è stata una scelta da applaudire, il romanzo inedito di Giorgio Scerbanenco (L’isola degli idealisti) e la biografia dello stesso autore (Il fabbricante di storie) mi hanno fatto letteralmente correre in libreria. Pubblicare Resta con me, invece, mi sembra un mezzo passo falso, probabilmente figlio di una vecchia abitudine a fidarsi ciecamente di premi letterari e recensori di peso. Forse sarebbe bastato riflettere sulla parte finale della trama, dove c’è una carrambata che metterebbe in imbarazzo anche il più distratto lettore fornito di ombrellone o comodino.
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18
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Nigeria, postcoloniale, romanzo, adebayo, narrativa rosa
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1677925
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