Noi, i sopravvissuti e il quarto romanzo dello scrittore malese, residente a Londra, Tash Aw. Il romanzo ha per oggetto la ricostruzione dei fatti che hanno preceduto un delitto, definito dalla polizia locale come omicidio a sfondo razziale. La narrazione e affidata ad un duo singolare, “un’attivista queer e un criminale depresso”, ed è ambientata ai giorni nostri in una località del sud-est asiatico dove chi “viene da fuori non noterebbe nulla d’insolito (…) non coglierebbe il senso di ansietà, la consapevolezza che l’intera città dipende dai commerci con paesi lontanissimi (…)”. Il criminale depresso Ah Hock, dopo aver scontato la pena per aver ucciso con “mezzo metro di legno umido (…) quel tipo di persona. Uno straniero. Un clandestino. Con la pelle scura”, viene contattato via e-mail dall’attivista queer Tan Su-Min, una dottoranda in sociologia presso un’università americana. La giovane ricercatrice, in procinto di tornare in Malaysia per un periodo di ricerca sul campo, vuole intervistare Ah Hock. L’atto del narrare non è affidato alla sola trascrizione delle registrazioni. Tra una trascrizione e l’altra intervengono i pensieri di entrambi, intervallati o sovrapposti a momenti di interazione diretta tra la giovane ricercatrice e il maturo ex detenuto, offrendo al lettore una visione articolata degli eventi raccontati. Le voci narranti descrivono una società malese corrotta e fondata sulle gerarchie: di classe e di razza. Gli stessi Ah Hock e Tan Su-Min sono i rappresentanti dei due estremi opposti della gerarchia di classe. “Per colpa della geografia”, Ah Hock “nasce in una famiglia di pescatori” in un piccolo villaggio circondato dal fiume e non collegato con i paesi limitrofi. Quel micromondo che conferisce una sorta di protezione dal mondo esterno globalizzato alimenta in Ah Hock desideri di “cose impossibili da ottenere”. Per converso, Tan Su-Min vive in citta, “frequenta scuole decenti” e può permettersi ambizioni alte, come quella di “finire in America.” Ah Hock vive sulla sua pelle la gerarchia di razza: “Bangladesh, Myanmar, Nepal. Per la polizia è tutto uguale. Anche l’Africa. E come se venissero tutti da un unico immenso continente senza nome”. Per i trafficanti di esseri umani, o “appaltatori di manodopera” come si definisce il suo migliore amico d’infanzia, ogni etnia ha un valore di mercato che differisce dalle zone e dalle mansioni lavorative a cui sono destinati: “bangladesi e indonesiani. Piu adatti al lavoro nelle piantagioni”. Questa realtà parallela per Tan Su-Min è, come sottolinea Ah Hock, “tutta roba che di sicuro hai studiato all’università”. Tan Su-Min ascolta impassibile i racconti dell’ex detenuto. Ah Hock, invece, nutre un sentimento contrastante nei confronti della ricercatrice che “di tanto in tanto diceva banalità tipo: “’dev’essere stata una situazione difficile per lei’ (…) Quella ragazza mi piaceva perché mi lasciava raccontare. La odiavo perché mi faceva raccontare”. Il rapporto tra i due in qualche modo emula il rapporto tra colonizzatore e colonizzato: Tan Su-Min detta le regole, insegna il modo corretto di pensare e comportarsi, e al termine delle sedute prende quello che Ah Hock ha liberamente condiviso con lei per trasformarlo in una merce (un libro) da cui può trarre profitto. In questa narrazione articolata sorprende, talvolta, il linguaggio di Ah-Hock quando l’esposizione dei suoi pensieri assume un andamento lirico-astratto che spicca rispetto al suo solito linguaggio, molto concreto e diretto.

Un’attivista queer e un criminale depresso

Maria Festa
First
2021-01-01

Abstract

Noi, i sopravvissuti e il quarto romanzo dello scrittore malese, residente a Londra, Tash Aw. Il romanzo ha per oggetto la ricostruzione dei fatti che hanno preceduto un delitto, definito dalla polizia locale come omicidio a sfondo razziale. La narrazione e affidata ad un duo singolare, “un’attivista queer e un criminale depresso”, ed è ambientata ai giorni nostri in una località del sud-est asiatico dove chi “viene da fuori non noterebbe nulla d’insolito (…) non coglierebbe il senso di ansietà, la consapevolezza che l’intera città dipende dai commerci con paesi lontanissimi (…)”. Il criminale depresso Ah Hock, dopo aver scontato la pena per aver ucciso con “mezzo metro di legno umido (…) quel tipo di persona. Uno straniero. Un clandestino. Con la pelle scura”, viene contattato via e-mail dall’attivista queer Tan Su-Min, una dottoranda in sociologia presso un’università americana. La giovane ricercatrice, in procinto di tornare in Malaysia per un periodo di ricerca sul campo, vuole intervistare Ah Hock. L’atto del narrare non è affidato alla sola trascrizione delle registrazioni. Tra una trascrizione e l’altra intervengono i pensieri di entrambi, intervallati o sovrapposti a momenti di interazione diretta tra la giovane ricercatrice e il maturo ex detenuto, offrendo al lettore una visione articolata degli eventi raccontati. Le voci narranti descrivono una società malese corrotta e fondata sulle gerarchie: di classe e di razza. Gli stessi Ah Hock e Tan Su-Min sono i rappresentanti dei due estremi opposti della gerarchia di classe. “Per colpa della geografia”, Ah Hock “nasce in una famiglia di pescatori” in un piccolo villaggio circondato dal fiume e non collegato con i paesi limitrofi. Quel micromondo che conferisce una sorta di protezione dal mondo esterno globalizzato alimenta in Ah Hock desideri di “cose impossibili da ottenere”. Per converso, Tan Su-Min vive in citta, “frequenta scuole decenti” e può permettersi ambizioni alte, come quella di “finire in America.” Ah Hock vive sulla sua pelle la gerarchia di razza: “Bangladesh, Myanmar, Nepal. Per la polizia è tutto uguale. Anche l’Africa. E come se venissero tutti da un unico immenso continente senza nome”. Per i trafficanti di esseri umani, o “appaltatori di manodopera” come si definisce il suo migliore amico d’infanzia, ogni etnia ha un valore di mercato che differisce dalle zone e dalle mansioni lavorative a cui sono destinati: “bangladesi e indonesiani. Piu adatti al lavoro nelle piantagioni”. Questa realtà parallela per Tan Su-Min è, come sottolinea Ah Hock, “tutta roba che di sicuro hai studiato all’università”. Tan Su-Min ascolta impassibile i racconti dell’ex detenuto. Ah Hock, invece, nutre un sentimento contrastante nei confronti della ricercatrice che “di tanto in tanto diceva banalità tipo: “’dev’essere stata una situazione difficile per lei’ (…) Quella ragazza mi piaceva perché mi lasciava raccontare. La odiavo perché mi faceva raccontare”. Il rapporto tra i due in qualche modo emula il rapporto tra colonizzatore e colonizzato: Tan Su-Min detta le regole, insegna il modo corretto di pensare e comportarsi, e al termine delle sedute prende quello che Ah Hock ha liberamente condiviso con lei per trasformarlo in una merce (un libro) da cui può trarre profitto. In questa narrazione articolata sorprende, talvolta, il linguaggio di Ah-Hock quando l’esposizione dei suoi pensieri assume un andamento lirico-astratto che spicca rispetto al suo solito linguaggio, molto concreto e diretto.
2021
XXXVIII
4
20
20
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Gerarchie di classe e di razza, Malaysia
Maria Festa
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1784153
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