“Al di là di ogni regola e convenzione artistica”. Tratta da Numero undici di Jonathan Coe, questa descrizione dell’art brut è anche un’ottima definizione di quel romanzo, perché molte delle sue parti ammiccano a una cifra diversa legata all’arte di genere, in una sorta di esercizio di stile: reality show, giallo e gotico. Pubblicato nel 2015, Numero undici: Storie che testimoniano la follia è un romanzo sullo stato della nazione, la fotografia di una Gran Bretagna travolta da eccessi e follie soprattutto per colpa di una classe dominante che porterà alla Brexit (tema affrontato da Coe nel successivo Middle England; cf. il “Segnale” di Elisabetta d’Erme sulla BrexLit nell’Indice n. 7/8, 2019). Intere strade di Chelsea disabitate, con enormi case vuote ma redditizie perché aumentano di prezzo costantemente: “Altre volte penso che, proprio come un famoso romeno che dissanguava le sue vittime addentandole al collo, oggi il denaro abbia cominciato a succhiare la vita di questa grande città”, nota l’immigrata romena Livia. E quando finisce lo spazio per ampliare le proprie proprietà, c’è chi decide di far costruire undici piani in profondità sotto la propria magione, in una discesa agli inferi che scatenerà le forze distruttive legate alla Londra più nascosta e sfruttata. Oltre ai generi descritti sopra, quindi, Coe allude a (e spesso cita) la fantascienza fin-de-siècle di Stoker e Wells, dove le forze oscure emergono dalle profondità. Come quel periodo storico cruciale anche questo, sembra voler dire Coe, è costellato da voragini sociali di sofferenza e sfruttamento, che culminano nelle nuove forme di schiavitù britanniche sviluppatesi con la globalizzazione. E per rappresentare un periodo così sregolato, perché non attingere alla sregolatezza (di origine anche psichiatrica) dell’art brut, al gusto per l’estremo dell’arte di genere? Come afferma Paolo Bertinetti in uno dei suoi numerosi scritti sul romanzo di spionaggio, “il pregio letterario di un testo non sta nel genere in cui si colloca, ma nel suo valore e nel valore di chi l’ha scritto.” Già dai primi anni ’90 la narrativa di genere ha intercettato il fenomeno delle nuove schiavitù in Gran Bretagna, grazie a grandi nomi del giallo come Ruth Rendell e Ian Rankin o ad autrici emergenti del genere umoristico come Marina Lewycka. Numero undici sembrava aver toccato l’apice di questo potenziale della genre fiction nel puntare l’indice contro ferite sociali sempre più aperte e dolorose, ma in questi ultimissimi anni sono emersi esempi non meno incisivi. Queenie, opera prima di Candice Carty-Williams (2019) si contraddistingue per una prima metà blanda, che lascia un po’ indifferenti. La protagonista del titolo è una ragazza di colore che lavora come giornalista in erba per un inserto culturale londinese, ha un gruppo di amiche con cui scambia messaggi whatsapp divertenti e/o appassionati, fa sesso occasionale e non protetto. Talvolta sembra che questo pluripremiato best-seller (sulla quale Channel Four sta progettando una serie TV) sia solo un esempio frizzante e irriverente di chick-lit, che comincia con l’immagine di Queenie con i piedi sulle staffe del ginecologo e che attinge a piene mani al linguaggio di quelle chat dove passiamo ore delle nostre giornate. Sottotraccia, però, si distinguono note dissonanti: Queenie non ama essere toccata neanche dal suo amato ex ragazzo, soffre di strani incubi, sbalzi d’umore e dolori improvvisi, ha rapporti sessuali talvolta brutali, e c’è un vuoto enigmatico attorno alla figura di sua madre. Sono indizi che esplodono nella seconda parte di questo romanzo bifronte, dove emerge il trauma originario legato al problema della violenza contro le donne nel contesto famigliare, innanzi tutto sotto forma di crisi di panico: “La stanza cominciò a deformarsi. Non riuscivo a respirare. Mi alzai e mi misi ad agitare le mani come per farmi aria o spingermela in bocca.” E così Queenie cerca di rialzarsi in piedi, un passettino dopo l’altro, in una lotta contro il dolore che include la ricostruzione del rapporto con una madre maltrattata e derubata dal proprio compagno: “Come avevo potuto essere così egoista, come avevo fatto a non vedere? Questa donna minuscola, docile, fagocitata dalla poltrona era la stessa che mi aveva cresciuta. […] Era stata maltrattata dagli uomini così tanto, fisicamente e psicologicamente, da non riuscire più a trovare la sua voce.” Durante la terapia, emerge anche la questione razziale ancora irrisolta in Gran Bretagna: “Non posso entrare in una stanza e non essere una donna nera […]. In autobus, in metropolitana, al lavoro, in mensa. Rumorosa, impudente, sfacciata, rabbiosa, insolente, polemica, malevola.” Ma questo aspetto di Queenie, compresi riferimenti al Black Lives Matter, è poco approfondito e non convince del tutto, soprattutto se paragonato alla profondità con cui si sviscera il trauma e la faticosa guarigione. Carty-Williams dà il suo meglio soprattutto quando riesce a impastare una dimensione di sofferenza acuta con lo humour della prima parte dell’opera, grazie anche agli irresistibili parenti giamaicani di Queenie, a partire dalla nonna-matriarca: “Secondo te dormo, con tutte le preoccupazioni che mi date? Sarà dal 1950 che non poggio la testa sul cuscino e mi faccio una nottata intera di sonno.” Tornando alla detective fiction, A.A. Dhand ha creato il personaggio di Harry Virdee, detective di punta della squadra omicidi di Bradford. In maniera simile a Queenie, anche Virdee è tormentato da un segreto terribile del suo passato – un omicidio per legittima difesa, per il quale suo fratello Ronnie è andato in prigione ed è poi diventato il re del traffico di eroina della città. In La ragazza zero (2017), il perfezionismo sul lavoro di Harry viene definito come un modo “compensare il suo karma”. Ma si tratta di una compensazione tutt’altro che facile, in una città la cui ricchezza industriale ormai decaduta ha lasciato posto a un buco nero di criminalità e squallore, costellato di fabbriche e tunnel in disuso, dominato da guerre tra bande, con interi quartieri nella morsa dei razzisti del BNP: “A quanto pare, Bradford se ne sbatteva del karma. Di quello di Harry e del proprio.” Ed è ancora meno facile quando, in un modo o nell’altro, Harry deve fare squadra con l’amato fratello criminale. La ragazza zero comincia con l’omicidio della giovane Tara: figlia di Ronnie ed amatissima nipote di Harry, stava indagando su una serie di rapimenti di bambine di madri single disagiate, per scopi di sfruttamento sessuale. Oltre a queste forme di schiavitù moderna, che sembrano tornare in modo ricorrente nella narrativa di genere, Dhand porta in primo piano il dolore provocato dal peso di tradizioni e onore famigliare all’interno delle comunità di immigrati. È un dolore che sconvolge anche la vita di Harry, visto che il padre lo ha ripudiato e quasi ucciso quando lui, di famiglia sikh, ha deciso di sposare l’infermiera musulmana Saima. Il piccolo Aaron, nato dal loro matrimonio, incarna una speranza per le generazioni future: “Il russare leggero di Aaron gli restituì l’equilibrio. Era l’antidoto perfetto a una città determinata a trascinarlo nei suoi recessi più bui.” Intrecciato strettamente con le indagini sull’omicidio, il dramma famigliare raggiunge il culmine quando Harry deve sottoporre il padre a interrogatorio: “Una buona educazione, l’integrazione con gli inglesi, di qualsiasi origine e classe sociale. Siamo diventati cittadini britannici, in un paese che se la ride di questo tuo melodramma religioso. Sei stato tu a crescerci in questo modo”. Nel romanzo seguente, La città del peccato (2018), il bavaglio soffocante della tradizione è nuovamente al centro della storia. Ci sono una serie di giovani donne uccise, un serial killer che sfida apertamente Harry, ma anche il padre di Harry che finisce in ospedale e viene curato da Saima. “Sono troppo vecchia per permettere che vada avanti così. Voglio vedere il mio Aaron che diventa grande. […] Toccherà alle donne cercare di salvare questa famiglia”, dice la madre di Harry. La città del peccato poi presenta la figura dell’ambiguo Tariq Islam: Ministro dell’Interno, ex-militare, patriottico e destrorso, incarnazione di quei ministri conservatori provenienti da famiglie immigrate come l’attuale Priti Patel, utili per dare un’allure multietnica alle politiche spietate dei governi conservatori. La scrittura sincopata di Dhand, con i suoi capoversi brevissimi ed epigrammatici, taglia il respiro e rende difficile interrompere la lettura – uno stile in sintonia con questo catalogo di infamie della società britannica contemporanea davvero angosciante, dal quale non sfugge neanche Harry Virdee: “Nessuno che lavori su queste strade si può permettere il lusso di fare lo sbirro tutto d’un pezzo. Se vuoi riuscire a combinare qualcosa a Bradford, devi diventare Bradford.” E contro il quale solo il piccolo Aaron, ancora una volta, fa intravedere un po’ di luce: “È un bambino inglese, amato dai genitori. Non è indiano né pachistano. Né musulmano, né sikh. Sarà quello che vorrà essere quando sarà grande abbastanza da decidere.”

Quando si ride di quello che chiamano un melodramma: Narrativa di genere della Gran Bretagna tra eccessi e follie

Deandrea Pietro
2022-01-01

Abstract

“Al di là di ogni regola e convenzione artistica”. Tratta da Numero undici di Jonathan Coe, questa descrizione dell’art brut è anche un’ottima definizione di quel romanzo, perché molte delle sue parti ammiccano a una cifra diversa legata all’arte di genere, in una sorta di esercizio di stile: reality show, giallo e gotico. Pubblicato nel 2015, Numero undici: Storie che testimoniano la follia è un romanzo sullo stato della nazione, la fotografia di una Gran Bretagna travolta da eccessi e follie soprattutto per colpa di una classe dominante che porterà alla Brexit (tema affrontato da Coe nel successivo Middle England; cf. il “Segnale” di Elisabetta d’Erme sulla BrexLit nell’Indice n. 7/8, 2019). Intere strade di Chelsea disabitate, con enormi case vuote ma redditizie perché aumentano di prezzo costantemente: “Altre volte penso che, proprio come un famoso romeno che dissanguava le sue vittime addentandole al collo, oggi il denaro abbia cominciato a succhiare la vita di questa grande città”, nota l’immigrata romena Livia. E quando finisce lo spazio per ampliare le proprie proprietà, c’è chi decide di far costruire undici piani in profondità sotto la propria magione, in una discesa agli inferi che scatenerà le forze distruttive legate alla Londra più nascosta e sfruttata. Oltre ai generi descritti sopra, quindi, Coe allude a (e spesso cita) la fantascienza fin-de-siècle di Stoker e Wells, dove le forze oscure emergono dalle profondità. Come quel periodo storico cruciale anche questo, sembra voler dire Coe, è costellato da voragini sociali di sofferenza e sfruttamento, che culminano nelle nuove forme di schiavitù britanniche sviluppatesi con la globalizzazione. E per rappresentare un periodo così sregolato, perché non attingere alla sregolatezza (di origine anche psichiatrica) dell’art brut, al gusto per l’estremo dell’arte di genere? Come afferma Paolo Bertinetti in uno dei suoi numerosi scritti sul romanzo di spionaggio, “il pregio letterario di un testo non sta nel genere in cui si colloca, ma nel suo valore e nel valore di chi l’ha scritto.” Già dai primi anni ’90 la narrativa di genere ha intercettato il fenomeno delle nuove schiavitù in Gran Bretagna, grazie a grandi nomi del giallo come Ruth Rendell e Ian Rankin o ad autrici emergenti del genere umoristico come Marina Lewycka. Numero undici sembrava aver toccato l’apice di questo potenziale della genre fiction nel puntare l’indice contro ferite sociali sempre più aperte e dolorose, ma in questi ultimissimi anni sono emersi esempi non meno incisivi. Queenie, opera prima di Candice Carty-Williams (2019) si contraddistingue per una prima metà blanda, che lascia un po’ indifferenti. La protagonista del titolo è una ragazza di colore che lavora come giornalista in erba per un inserto culturale londinese, ha un gruppo di amiche con cui scambia messaggi whatsapp divertenti e/o appassionati, fa sesso occasionale e non protetto. Talvolta sembra che questo pluripremiato best-seller (sulla quale Channel Four sta progettando una serie TV) sia solo un esempio frizzante e irriverente di chick-lit, che comincia con l’immagine di Queenie con i piedi sulle staffe del ginecologo e che attinge a piene mani al linguaggio di quelle chat dove passiamo ore delle nostre giornate. Sottotraccia, però, si distinguono note dissonanti: Queenie non ama essere toccata neanche dal suo amato ex ragazzo, soffre di strani incubi, sbalzi d’umore e dolori improvvisi, ha rapporti sessuali talvolta brutali, e c’è un vuoto enigmatico attorno alla figura di sua madre. Sono indizi che esplodono nella seconda parte di questo romanzo bifronte, dove emerge il trauma originario legato al problema della violenza contro le donne nel contesto famigliare, innanzi tutto sotto forma di crisi di panico: “La stanza cominciò a deformarsi. Non riuscivo a respirare. Mi alzai e mi misi ad agitare le mani come per farmi aria o spingermela in bocca.” E così Queenie cerca di rialzarsi in piedi, un passettino dopo l’altro, in una lotta contro il dolore che include la ricostruzione del rapporto con una madre maltrattata e derubata dal proprio compagno: “Come avevo potuto essere così egoista, come avevo fatto a non vedere? Questa donna minuscola, docile, fagocitata dalla poltrona era la stessa che mi aveva cresciuta. […] Era stata maltrattata dagli uomini così tanto, fisicamente e psicologicamente, da non riuscire più a trovare la sua voce.” Durante la terapia, emerge anche la questione razziale ancora irrisolta in Gran Bretagna: “Non posso entrare in una stanza e non essere una donna nera […]. In autobus, in metropolitana, al lavoro, in mensa. Rumorosa, impudente, sfacciata, rabbiosa, insolente, polemica, malevola.” Ma questo aspetto di Queenie, compresi riferimenti al Black Lives Matter, è poco approfondito e non convince del tutto, soprattutto se paragonato alla profondità con cui si sviscera il trauma e la faticosa guarigione. Carty-Williams dà il suo meglio soprattutto quando riesce a impastare una dimensione di sofferenza acuta con lo humour della prima parte dell’opera, grazie anche agli irresistibili parenti giamaicani di Queenie, a partire dalla nonna-matriarca: “Secondo te dormo, con tutte le preoccupazioni che mi date? Sarà dal 1950 che non poggio la testa sul cuscino e mi faccio una nottata intera di sonno.” Tornando alla detective fiction, A.A. Dhand ha creato il personaggio di Harry Virdee, detective di punta della squadra omicidi di Bradford. In maniera simile a Queenie, anche Virdee è tormentato da un segreto terribile del suo passato – un omicidio per legittima difesa, per il quale suo fratello Ronnie è andato in prigione ed è poi diventato il re del traffico di eroina della città. In La ragazza zero (2017), il perfezionismo sul lavoro di Harry viene definito come un modo “compensare il suo karma”. Ma si tratta di una compensazione tutt’altro che facile, in una città la cui ricchezza industriale ormai decaduta ha lasciato posto a un buco nero di criminalità e squallore, costellato di fabbriche e tunnel in disuso, dominato da guerre tra bande, con interi quartieri nella morsa dei razzisti del BNP: “A quanto pare, Bradford se ne sbatteva del karma. Di quello di Harry e del proprio.” Ed è ancora meno facile quando, in un modo o nell’altro, Harry deve fare squadra con l’amato fratello criminale. La ragazza zero comincia con l’omicidio della giovane Tara: figlia di Ronnie ed amatissima nipote di Harry, stava indagando su una serie di rapimenti di bambine di madri single disagiate, per scopi di sfruttamento sessuale. Oltre a queste forme di schiavitù moderna, che sembrano tornare in modo ricorrente nella narrativa di genere, Dhand porta in primo piano il dolore provocato dal peso di tradizioni e onore famigliare all’interno delle comunità di immigrati. È un dolore che sconvolge anche la vita di Harry, visto che il padre lo ha ripudiato e quasi ucciso quando lui, di famiglia sikh, ha deciso di sposare l’infermiera musulmana Saima. Il piccolo Aaron, nato dal loro matrimonio, incarna una speranza per le generazioni future: “Il russare leggero di Aaron gli restituì l’equilibrio. Era l’antidoto perfetto a una città determinata a trascinarlo nei suoi recessi più bui.” Intrecciato strettamente con le indagini sull’omicidio, il dramma famigliare raggiunge il culmine quando Harry deve sottoporre il padre a interrogatorio: “Una buona educazione, l’integrazione con gli inglesi, di qualsiasi origine e classe sociale. Siamo diventati cittadini britannici, in un paese che se la ride di questo tuo melodramma religioso. Sei stato tu a crescerci in questo modo”. Nel romanzo seguente, La città del peccato (2018), il bavaglio soffocante della tradizione è nuovamente al centro della storia. Ci sono una serie di giovani donne uccise, un serial killer che sfida apertamente Harry, ma anche il padre di Harry che finisce in ospedale e viene curato da Saima. “Sono troppo vecchia per permettere che vada avanti così. Voglio vedere il mio Aaron che diventa grande. […] Toccherà alle donne cercare di salvare questa famiglia”, dice la madre di Harry. La città del peccato poi presenta la figura dell’ambiguo Tariq Islam: Ministro dell’Interno, ex-militare, patriottico e destrorso, incarnazione di quei ministri conservatori provenienti da famiglie immigrate come l’attuale Priti Patel, utili per dare un’allure multietnica alle politiche spietate dei governi conservatori. La scrittura sincopata di Dhand, con i suoi capoversi brevissimi ed epigrammatici, taglia il respiro e rende difficile interrompere la lettura – uno stile in sintonia con questo catalogo di infamie della società britannica contemporanea davvero angosciante, dal quale non sfugge neanche Harry Virdee: “Nessuno che lavori su queste strade si può permettere il lusso di fare lo sbirro tutto d’un pezzo. Se vuoi riuscire a combinare qualcosa a Bradford, devi diventare Bradford.” E contro il quale solo il piccolo Aaron, ancora una volta, fa intravedere un po’ di luce: “È un bambino inglese, amato dai genitori. Non è indiano né pachistano. Né musulmano, né sikh. Sarà quello che vorrà essere quando sarà grande abbastanza da decidere.”
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Narrativa di genere, Gran Bretagna, chick-lit, gotico, detective fiction, art brut, nuove schiavitù, Coe, Carty-Williams, Dhand.
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1851021
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