Il saggio si propone di analizzare il significato giuridico delle informazioni contenute nel de oratore di Marco Tullio Cicerone, al passo 1.168, nella sezione dell'opera, ambientata nel settembre del 91, in cui l'avvocato Crasso perora la necessità per gli avvocati di padroneggiare il diritto. Un esempio di mancata conoscenza è quello cui ebbe modo di assistere di persona, pochi giorni prima, lo stesso Crasso, quando fungeva da consigliere del pretore urbano. Un avvocato insisteva perché al suo assistito fosse riconosciuta la vetus atque usitata exceptio che Crasso denomina 'cuius pecuniae dies fuisset'. Lo studio intende porre in risalto come il processo dell'estate del 91 citato dall'Arpinate si fosse svolto secondo il rito per legis actiones piuttosto che in base alle nuove regole formulari. Il saggio ripercorre poi le tre posizioni presenti in letteratura sull'interpretazione da dare al brano, le quali presuppongono tutte che la contesa si fosse svolta con applicazione del rito formulare. Messi in risalto i punti deboli delle due tesi alternative, lo scritto si concentra sulla tesi dominante, secondo cui il caso costituirebbe una piana applicazione dei principi enunciati circa 250 anni dopo da Gaio, nel suo manuale di diritto e procedura civile. Il caso avrebbe cioè riguardato un credito nascente da stipulatio, di importo non determinato in quanto attinente a scadenze periodiche: per fare salvo il diritto di chiedere i successivi importi venuti a scadenza il creditore avrebbe dovuto precisare che agiva soltanto per i crediti scaduti (cuius rei dies fuit), con la praescriptio pro actore, e la necessità per il convenuto di fare valere il precedente giudizio tramite exceptio confermerebbe che, nel 91, il processo formulare aveva effetti civili solamente relativamente alla condictio certae rei o certae pecuniae. La ricerca si prepone, in senso contrario, di mettere in risalto come le parole impiegate da Cicerone alludano chiaramente a un rapporto di mutuo, non formalizzato in una sponsio/stipulatio, bensì concluso informalmente, e che si faceva pertanto valere con la legis actio per condictionem. L'importo del mutuo era determinato, ma frazionato in più scadenze (ciò che la dottrina non coglie). La vetus atque usitata exceptio si proponeva pertanto di rimediare alle rigidità del processo civile romano bipartito, ammettendo il creditore a chiedere la restituzione della rata scaduta, senza che l'agire per essa determinasse l'estinzione del credito in forza dell'obiezione del debitore che egli doveva di più e dunque la richiesta del creditore era infondata oppure, se il primo avesse agito solamente per l'intero importo del crdito, che gli fosse obiettato di avere agito ante tempus, intempestivamente, determinandosi in tal caso l'estinzione del credito. L'analisi conclude che, nell'ambito del rito per legis actiones, il rimedio in questione fu escogitato intorno al 200, o poco dopo, da Publio oppure Sesto Elio, quale dichiarazione davanti ai testimoni, in sede di litis contestatio, che si agiva solamente per la rata di mutuo infruttuosamente scaduta (di lì l'antico e sperimentato rimedio passò al processo formulare, nelle vesti di praescriptio pro actore). L'exceptio che la res era già stata dedotta in giudizio non allude ad un'exceptio di litispendenza o res iudicata in senso gaiano, ma nell'accezione propria delle legis actiones, che, non conoscendo l'exceptio di stampo formulare, importava un'argomentazione difensiva svolta davanti al pretore: si trattava dunque per l'appunto di un'argomentazione difensiva che il convenuto avrebbe potuto avanzare nel successivo processo, onde far pronunciare dal pretore una denegatio actionis.

La vetus atque usitata exceptio - cuius pecuniae dies fuisset - di Cic., de orat. 1.168: un rimedio a disposizione dell'attore per evitare la pluris petitio tempore nel processo per legis actiones

Barbati S.
2024-01-01

Abstract

Il saggio si propone di analizzare il significato giuridico delle informazioni contenute nel de oratore di Marco Tullio Cicerone, al passo 1.168, nella sezione dell'opera, ambientata nel settembre del 91, in cui l'avvocato Crasso perora la necessità per gli avvocati di padroneggiare il diritto. Un esempio di mancata conoscenza è quello cui ebbe modo di assistere di persona, pochi giorni prima, lo stesso Crasso, quando fungeva da consigliere del pretore urbano. Un avvocato insisteva perché al suo assistito fosse riconosciuta la vetus atque usitata exceptio che Crasso denomina 'cuius pecuniae dies fuisset'. Lo studio intende porre in risalto come il processo dell'estate del 91 citato dall'Arpinate si fosse svolto secondo il rito per legis actiones piuttosto che in base alle nuove regole formulari. Il saggio ripercorre poi le tre posizioni presenti in letteratura sull'interpretazione da dare al brano, le quali presuppongono tutte che la contesa si fosse svolta con applicazione del rito formulare. Messi in risalto i punti deboli delle due tesi alternative, lo scritto si concentra sulla tesi dominante, secondo cui il caso costituirebbe una piana applicazione dei principi enunciati circa 250 anni dopo da Gaio, nel suo manuale di diritto e procedura civile. Il caso avrebbe cioè riguardato un credito nascente da stipulatio, di importo non determinato in quanto attinente a scadenze periodiche: per fare salvo il diritto di chiedere i successivi importi venuti a scadenza il creditore avrebbe dovuto precisare che agiva soltanto per i crediti scaduti (cuius rei dies fuit), con la praescriptio pro actore, e la necessità per il convenuto di fare valere il precedente giudizio tramite exceptio confermerebbe che, nel 91, il processo formulare aveva effetti civili solamente relativamente alla condictio certae rei o certae pecuniae. La ricerca si prepone, in senso contrario, di mettere in risalto come le parole impiegate da Cicerone alludano chiaramente a un rapporto di mutuo, non formalizzato in una sponsio/stipulatio, bensì concluso informalmente, e che si faceva pertanto valere con la legis actio per condictionem. L'importo del mutuo era determinato, ma frazionato in più scadenze (ciò che la dottrina non coglie). La vetus atque usitata exceptio si proponeva pertanto di rimediare alle rigidità del processo civile romano bipartito, ammettendo il creditore a chiedere la restituzione della rata scaduta, senza che l'agire per essa determinasse l'estinzione del credito in forza dell'obiezione del debitore che egli doveva di più e dunque la richiesta del creditore era infondata oppure, se il primo avesse agito solamente per l'intero importo del crdito, che gli fosse obiettato di avere agito ante tempus, intempestivamente, determinandosi in tal caso l'estinzione del credito. L'analisi conclude che, nell'ambito del rito per legis actiones, il rimedio in questione fu escogitato intorno al 200, o poco dopo, da Publio oppure Sesto Elio, quale dichiarazione davanti ai testimoni, in sede di litis contestatio, che si agiva solamente per la rata di mutuo infruttuosamente scaduta (di lì l'antico e sperimentato rimedio passò al processo formulare, nelle vesti di praescriptio pro actore). L'exceptio che la res era già stata dedotta in giudizio non allude ad un'exceptio di litispendenza o res iudicata in senso gaiano, ma nell'accezione propria delle legis actiones, che, non conoscendo l'exceptio di stampo formulare, importava un'argomentazione difensiva svolta davanti al pretore: si trattava dunque per l'appunto di un'argomentazione difensiva che il convenuto avrebbe potuto avanzare nel successivo processo, onde far pronunciare dal pretore una denegatio actionis.
2024
Scripta extravagantia. Studi in ricordo di Ferdinando Zuccotti
LED
Collana della rivista di diritto romano
67
99
978-88-5513-130-8
https://www.ledonline.it/public/files/journals/16/NS-124-Studi-Zuccotti/Barbati-exceptio.pdf
Processo civile romano, Pluris petitio, Legis actiones, Meccanismi processuali di tutela del creditore a fronte di un credito rateale
Barbati S.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1872059
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