I recenti eventi internazionali – legati ai cambiamenti climatici, ai fenomeni pandemici, alle crisi finanziarie e alle contestuali situazioni belliche – hanno messo in luce, nel presente, tutta la fragilità della “globalizzazione”, termine attribuito al settimanale britannico The Economist (nel lontano 1962), il cui uso nel gergo comune si diffuse a partire dagli anni ’90, in corrispondenza dell’avvio dell’impiego a finalità civili della rete Internet. L’iniziale slancio idealistico attribuito al concetto di “globalizzazione” si è dovuto misurare nel corso degli ultimi anni con una desolante evidenza, che ha assunto la sembianza di un qualche liberismo disarmonico in cui è possibile osservare un comune aumento mondiale delle disuguaglianze economiche e sociali (a scapito dei molti) e una parallela concentrazione della ricchezza (a vantaggio di pochi). Le attuali crisi economiche internazionali, inoltre, caratterizzate da una recente e comune crescita inflazionistica, hanno portano in alcuni casi a rivalutare le tesi – alquanto dibattute e divisive – dell’economia autarchica, autosufficiente ed economicamente indipendente: una prospettiva a cui gli economisti, sempre negli ultimi anni, hanno associato al neologismo della “deglobalizzazione”. Quanto premesso impone il dovere – anche in ambito economico aziendale – di rivedere i modelli di business proposti nel corso del tempo, mettendoli in discussione, alla ricerca di nuovi archetipi di “azienda ibrida”, a natura congiunta profit e non profit, indispensabili per il perseguimento di un progresso equo e sostenibile. Dalla premessa consegue la Research Question del presente contributo, concernente la declinazione del menzionato modello di “azienda ibrida” e dei relativi driver di “vantaggio competitivo”, tra i quali il Diversity Management (di seguito indicato in acronimo come DM) è destinato a ricoprire un ruolo particolarmente significativo.
Il Diversity Management per una realtà lavorativa inclusiva
Massimo Pollifroni
;
2023-01-01
Abstract
I recenti eventi internazionali – legati ai cambiamenti climatici, ai fenomeni pandemici, alle crisi finanziarie e alle contestuali situazioni belliche – hanno messo in luce, nel presente, tutta la fragilità della “globalizzazione”, termine attribuito al settimanale britannico The Economist (nel lontano 1962), il cui uso nel gergo comune si diffuse a partire dagli anni ’90, in corrispondenza dell’avvio dell’impiego a finalità civili della rete Internet. L’iniziale slancio idealistico attribuito al concetto di “globalizzazione” si è dovuto misurare nel corso degli ultimi anni con una desolante evidenza, che ha assunto la sembianza di un qualche liberismo disarmonico in cui è possibile osservare un comune aumento mondiale delle disuguaglianze economiche e sociali (a scapito dei molti) e una parallela concentrazione della ricchezza (a vantaggio di pochi). Le attuali crisi economiche internazionali, inoltre, caratterizzate da una recente e comune crescita inflazionistica, hanno portano in alcuni casi a rivalutare le tesi – alquanto dibattute e divisive – dell’economia autarchica, autosufficiente ed economicamente indipendente: una prospettiva a cui gli economisti, sempre negli ultimi anni, hanno associato al neologismo della “deglobalizzazione”. Quanto premesso impone il dovere – anche in ambito economico aziendale – di rivedere i modelli di business proposti nel corso del tempo, mettendoli in discussione, alla ricerca di nuovi archetipi di “azienda ibrida”, a natura congiunta profit e non profit, indispensabili per il perseguimento di un progresso equo e sostenibile. Dalla premessa consegue la Research Question del presente contributo, concernente la declinazione del menzionato modello di “azienda ibrida” e dei relativi driver di “vantaggio competitivo”, tra i quali il Diversity Management (di seguito indicato in acronimo come DM) è destinato a ricoprire un ruolo particolarmente significativo.File | Dimensione | Formato | |
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