Nata nel 1975 a Teheran ed emigrata con la famiglia a Londra da bambina, Mina Gorji pubblica questa sua prima raccolta come poliedrica esplorazione del sé e delle proprie origini. Un gruppo di componimenti racconta dell’oppressione di genere in Iran (“tolgono il rossetto / dalle labbra delle ragazze / con fazzoletti avvolti / intorno a lame di rasoio”; Teheran) fino alla fuga con i propri valori nascosti addosso (“Pizzicata per bene, / mia sorella strillava / così forte / che le guardie in chador / si limitarono a uno sguardo accigliato, / e fecero cenno di passare, / senza perquisirci” (Uscita). Questi versi sospesi tra paura e nostalgia, però, non sono che una minima parte della raccolta. Gorji intravede e proietta la propria esperienza in dimensioni vegetali o animali come La vespa (“si affaccia alla luce inglese / questa minuscola migrante”) o l’armadillo con la sua solitudine: “squama su squama / in schiere compatte – / carapace protettivo / apprezzato per la risonanza” (Charango). Come una migrante, anche il cavalluccio marino ha le sue strategie per non cadere vittima dello stereotipo: “Lento nei movimenti, / modesto nuotatore, / si affida / al mimetismo / per sfuggire / alla reincarnazione / come fermacarte / o pacchiano souvenir” (Reincarnazione). Questa visione arriva a coprire un àmbito sempre più ampio, dove umano e non- umano trovano rifugio. Come scrive Jane Wilkinson nell’approfondita introduzione, “la poesia stessa può essere intesa come arte di fuga, evasione e metamorfosi”. Quanto ridicolo, quindi, abbattere allodole provenienti dalla Germania giacché cantavano per Hitler: “I territori del cuore si contraggono / quando riduci la musica a una mappa; / il volo canoro è confinato al corpo e svilito” (Migranti). La scrittura di Gorji è essenzialmente tesa a cogliere ciò che soggiace a queste forme del visibile, sotto “la terra sepolcrale dello spirito” (Terreni dello spirito). E cerca di afferrarlo con un verso breve se non asciuttissimo, che sfrutta appieno i frequenti termini monosillabici della lingua inglese, con numerosi versi costituiti da una singola parola. Talvolta questa caratteristica produce componimenti epigrammatici come Orientamento, che si avvale per di più di un accorgimento grafico: “i l c u o r e / d e l l a b u s s o l a / è s e m p r e f e r m o – / malgrado l’irrequieto tremolio / della punta dell’ago”. L’originalità di questa raccolta sta proprio nella sua ricerca di equilibrio tra un versificare così scarno e un lirismo sempre sul punto di affiorare, ma che non si fa mai dominante – originalità che deve aver posto non pochi problemi al gruppo di traduttrici del Laboratorio di traduzione poetica “Monteverdelegge” di Roma. Un lavoro traduttivo che nel complesso pare riuscito e, anche laddove gli ostacoli si sono rivelati insormontabili, deve essere stato molto arricchente per chi vi ha partecipato, come spesso accade per le traduzioni collettive.

Il cuore della bussola è sempre fermo

Deandrea Pietro
2024-01-01

Abstract

Nata nel 1975 a Teheran ed emigrata con la famiglia a Londra da bambina, Mina Gorji pubblica questa sua prima raccolta come poliedrica esplorazione del sé e delle proprie origini. Un gruppo di componimenti racconta dell’oppressione di genere in Iran (“tolgono il rossetto / dalle labbra delle ragazze / con fazzoletti avvolti / intorno a lame di rasoio”; Teheran) fino alla fuga con i propri valori nascosti addosso (“Pizzicata per bene, / mia sorella strillava / così forte / che le guardie in chador / si limitarono a uno sguardo accigliato, / e fecero cenno di passare, / senza perquisirci” (Uscita). Questi versi sospesi tra paura e nostalgia, però, non sono che una minima parte della raccolta. Gorji intravede e proietta la propria esperienza in dimensioni vegetali o animali come La vespa (“si affaccia alla luce inglese / questa minuscola migrante”) o l’armadillo con la sua solitudine: “squama su squama / in schiere compatte – / carapace protettivo / apprezzato per la risonanza” (Charango). Come una migrante, anche il cavalluccio marino ha le sue strategie per non cadere vittima dello stereotipo: “Lento nei movimenti, / modesto nuotatore, / si affida / al mimetismo / per sfuggire / alla reincarnazione / come fermacarte / o pacchiano souvenir” (Reincarnazione). Questa visione arriva a coprire un àmbito sempre più ampio, dove umano e non- umano trovano rifugio. Come scrive Jane Wilkinson nell’approfondita introduzione, “la poesia stessa può essere intesa come arte di fuga, evasione e metamorfosi”. Quanto ridicolo, quindi, abbattere allodole provenienti dalla Germania giacché cantavano per Hitler: “I territori del cuore si contraggono / quando riduci la musica a una mappa; / il volo canoro è confinato al corpo e svilito” (Migranti). La scrittura di Gorji è essenzialmente tesa a cogliere ciò che soggiace a queste forme del visibile, sotto “la terra sepolcrale dello spirito” (Terreni dello spirito). E cerca di afferrarlo con un verso breve se non asciuttissimo, che sfrutta appieno i frequenti termini monosillabici della lingua inglese, con numerosi versi costituiti da una singola parola. Talvolta questa caratteristica produce componimenti epigrammatici come Orientamento, che si avvale per di più di un accorgimento grafico: “i l c u o r e / d e l l a b u s s o l a / è s e m p r e f e r m o – / malgrado l’irrequieto tremolio / della punta dell’ago”. L’originalità di questa raccolta sta proprio nella sua ricerca di equilibrio tra un versificare così scarno e un lirismo sempre sul punto di affiorare, ma che non si fa mai dominante – originalità che deve aver posto non pochi problemi al gruppo di traduttrici del Laboratorio di traduzione poetica “Monteverdelegge” di Roma. Un lavoro traduttivo che nel complesso pare riuscito e, anche laddove gli ostacoli si sono rivelati insormontabili, deve essere stato molto arricchente per chi vi ha partecipato, come spesso accade per le traduzioni collettive.
2024
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Gorji, poesia, anglofonia, postcoloniale, Iran
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/2029793
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