recensione di Concilio, C., L'Indice 1995, n. 4 Le spire del tempo si avvolgono su se stesse e con esse la storia si dipana. Una storia antica che affonda le sue radici nel mito. Una favola. Una storia d'amore. "Perché non c'è niente di peggio che perdere il proprio amore senza potersi nemmeno interrogare sulle cause o sulle colpe. Senza poter dire: ricordati di me, ricordati di me, ricordati di me". Ma anche perché il ritorno al mito è "una questione di memoria. Non dimenticate" - come ammonisce il narratore. E si tratta certo di un narratore d'eccezione, astuto, abile incantatore, che invita il lettore a spigolare tra le pagine successive e poi glielo impedisce con un monito: "Si prega il lettore di non voltare pagina prima del tempo: in una storia ogni cosa viene al momento giusto". Un narratore che si prende gioco del lettore, anticipando una domanda che si fa interprete della sua curiosità, e che offre per tutta risposta una semplice parolina in sostituzione di un intero capitolo: "No". Adamastor. L'eroe. Il narratore, dietro cui si nasconde l'abilità di André Brink. Ma anche il Titano, il Gigante, affascinato dalla ninfa Teti, dea del mare, ma anche dea lunare, che emerge dalle onde come Venere (le due divinità si confondevano nell'antichità). Lei, la bellissima donna bianca dai lunghi capelli neri, venuta dal mare su un guscio come d'uovo, portata dalle navi di Vasco de Gama al Capo di Buona Speranza, ribattezzata 'Khois' ("Donna", per eccellenza) da Lui, l'eroe appunto, TKama, ovvero "Grande Uccello". Il nome naturalmente allude a una imbarazzante caratteristica fisica, di cui egli si dovrà in qualche modo sbarazzare. Da qui l'impossibilità di amare. L'esuberanza gli virilità tramutata in impotenza. E l'eroe allora deve conquistarsela questa donna, come vuole la tradizione fiabesca, superando difficili prove; a costo di dolorose rinunce; compiendo un lungo viaggio. La vita come via da percorrere. La storia d'amore come epica, epopea di un popolo. La favola ha per retroscena una realtà più prosaica. L'impossibilità ad amare nasce da barriere razziali e culturali. L'eroe deve conquistare la donna amata sottraendola al sospetto e ai pregiudizi del proprio popolo. L'europea è una straniera, i suoi gesti sono ingenui presagi di sciagura. Ma la sciagura l'aveva portata il mare tempo prima; aveva portato epidemie sconosciute e guerre sanguinose; aveva costretto popolazioni nomadiche per abitudine a marce forzate verso zone aride e inospitali abitate da tribù nemiche. L'eroe deve conquistare la donna amata imparando a farsi conoscere da lei e a conoscerla, valicando frontiere linguistiche. Un percorso lento, che richiede tempo. Il narratore ha ormai più di quattrocento anni quando ricorda come il male e il bene venuti insieme dal mare, dal mare sono stati portati via: la sua donna reclamata dai conquistatori bianchi. E Lui, l'eroe, che aveva osato rubare agli "uomini barba" la favilla della bellezza, punito come Prometeo, il fegato in pasto all'avvoltoio dell'amore, inchiodato alle rocce della Penisola del Capo per volere di Zeus. Il pre-coloniale si confonde così con il post-coloniale, la favola antica con quella moderna. La riscrittura del mito si arricchisce infatti anche di valenze intertestuali, la figura di Adamastor è presente nel "Gargantua e Pantagruele" di Rabelals e nei "Lusiadi" del poeta portoghese Camões; ma per assonanza Adamastor ricorda anche Adam Mantoor, lo schiavo di colore che incontra nel mezzo della 'wilderness' la vedova di un esploratore svedese, protagonista di un precedente romanzo di Brink ambientato nel Settecento: "Un istante nel vento" (1976; Rizzoli, 1988). Anche in quel caso il viaggio da compiere a fianco della bella donna bianca dai lunghi capelli neri è circolare: dal mare verso l'interno e poi nuovamente verso il mare. Anche in quel caso, l'amore impossibile diviene possibile solo dopo molte incomprensioni. Diviene possibile in una parentesi di sogno, e torna a essere impossibile quando i due personaggi fanno ritorno alla civilization per reintegrarsi nella comunità dei bianchi del Capo. La favola mitologica diviene parabola sulla storia del colonialismo. Una favola "elegante", la definisce Mario Vargas Llosa in una recensione apparsa sulla "New York Times Book Review", quella di Brink, di un'eleganza peraltro rispettata e valorizzata dalla bella e accurata traduzione di Pietro Deandrea, ol tre che dalla raffinata edizione, corredata di note e di un glossario per i termini che rimandano all'immaginario sudafricano. "Favola ironica" anche, ma più ancora ricostruzione allegorica della storia del luogo d'origine della colonizzazione del Sudefrica, il Capo delle Tempeste (Port Elizabeth e la Baia di Algoa), come il Capo di Buona Speranza. Da lì i portoghesi prima, gli olandesi poi, avevano intrapreso i loro iniqui baratti con le popolazioni locali, come quella dei Khoikhoin, il "popolo dei popoli", il popolo del narratore, respingendole via via verso l'interno del paese. Là, in quel luogo, nel punto in cui come una tempesta di sventura erano approdati i conquistatori, dove come una buona speranza l'eroe aveva incontrato la sua donna, il cerchio si chiude alla fine del tempo su di un viaggio che va da casa a casa. Un viaggio circolare, che segue le spire del tempo africano, chiaramente simboleggiato, in una delle sue rappresentazioni, dal serpente che si morde la coda, l'Uroboro. E il viaggio compiuto dal narratore a capo della sua tribù verso il nord-est del paese è lo stesso che i coloni boeri seguirono più tardi nella loro progressiva esplorazione del territorio. Boero di origine è anche André Brink, scrittore che si è sempre distinto per il suo spirito liberale e libertario. E "liberale" è un termine riduttivo per tutti coloro che come Brink hanno colorato la propria scrittura e il proprio impegno intellettuale con la trasparenza della protesta e della denuncia contro il Sudafrica razzista. Come Brink, il poeta, pittore, romanziere e amico Breyten Breytenbach, che avendo sposato una vietnamita aveva infranto il codice morale e razziale delle leggi sui matrimoni misti, aveva tradito i boeri, era emigrato a Parigi, come racconta Brink e come racconta egli stesso nel suo ultimo libro "Ritorno in paradiso" (Costa & Nolan, 1994). Oppure come il romanziere, amico e collega John Maxwell Coetzee, con il quale Brink ha curato l'edizione di un'antologia di racconti di scrittori sudafricani, "A LandApart" (1986), e con cui condivide, oltre alla comune esperienza dell'insegnamento universitario, talune tematiche. Anche Coetzee aveva parlato dell'improbabile quanto impossibile amore tra un nero muto perché mutilato della lingua e una donna bianca dai capelli fluttuanti emersa dalle onde come un anemone di mare, in "Foe" (Rizzoli, 1987). Anche in quel caso la simbolica impossibilità ad amare del nero era metafora della recisione di un insondabile legame con le pro prie origini, la terra e la lingua-madre. Boero, si diceva, André Brink, ma rinato "a Parigi, su una panchina del Jardin du Luxembourg, uno dei primi giorni di primavera del 1960", - come recita il brano di prosa autobiografica affiancato in traduzione in appendice al testo - quando, guardando da lontano al Sudafrica del massacro di Sharpeville, ha compreso che la scrittura sarebbe divenuta la sua arma per capire e accogliere anche gli altri, i neri. La rivisitazione del tema dell'amore possibile impossibile di un nero per una bianca, la favola sul tema dell'incontro con "l'altro" viene raccontata da Brink liberata dai consueti cliché. Il riferimento è qui ai molti film impregnati di romanticismo in cui l'incontro con l'Altro aveva per sfondo scenari da premio fotografico, come "Il tè nel deserto", dove a incontrarsi erano la cultura araba e quella europea, oppure "Balla coi lupi", dove però la bella indiana era in realtà una bianca. Fino a ora, tra l'altro, anche la fama di André Brink in Italia è rimasta legata a un film del 1989 che annoverava tra gli interpreti principali Marlon Brando, diretto da Euzhan Palcy e tratto dal suo romanzo: "Un'arida stagione bianca" (1979; Frassinelli, 1989). Nelle opere di Brink, invece, i due personaggi sono entrambi, anche se in modo diverso, belli, affascinanti, dotati di una forte carica di sensualità, mossi dallo stesso desiderio l'uno verso l'altra, frenati dagli stessi timori e dalle stesse incomprensioni. L'amore impossibile diviene possibile solo quando i due protagonisti si incontrano su un piano paritetico, dopo aver esperito entrambi rinunce e umiliazioni. La rinuncia all'appartenenza, in primo luogo, a un pezzo della propria identità etnica e culturale.
La prima vita di Adamastor (o sull'origine del Capo delle Tempeste)
DEANDREA, Pietro
1994-01-01
Abstract
recensione di Concilio, C., L'Indice 1995, n. 4 Le spire del tempo si avvolgono su se stesse e con esse la storia si dipana. Una storia antica che affonda le sue radici nel mito. Una favola. Una storia d'amore. "Perché non c'è niente di peggio che perdere il proprio amore senza potersi nemmeno interrogare sulle cause o sulle colpe. Senza poter dire: ricordati di me, ricordati di me, ricordati di me". Ma anche perché il ritorno al mito è "una questione di memoria. Non dimenticate" - come ammonisce il narratore. E si tratta certo di un narratore d'eccezione, astuto, abile incantatore, che invita il lettore a spigolare tra le pagine successive e poi glielo impedisce con un monito: "Si prega il lettore di non voltare pagina prima del tempo: in una storia ogni cosa viene al momento giusto". Un narratore che si prende gioco del lettore, anticipando una domanda che si fa interprete della sua curiosità, e che offre per tutta risposta una semplice parolina in sostituzione di un intero capitolo: "No". Adamastor. L'eroe. Il narratore, dietro cui si nasconde l'abilità di André Brink. Ma anche il Titano, il Gigante, affascinato dalla ninfa Teti, dea del mare, ma anche dea lunare, che emerge dalle onde come Venere (le due divinità si confondevano nell'antichità). Lei, la bellissima donna bianca dai lunghi capelli neri, venuta dal mare su un guscio come d'uovo, portata dalle navi di Vasco de Gama al Capo di Buona Speranza, ribattezzata 'Khois' ("Donna", per eccellenza) da Lui, l'eroe appunto, TKama, ovvero "Grande Uccello". Il nome naturalmente allude a una imbarazzante caratteristica fisica, di cui egli si dovrà in qualche modo sbarazzare. Da qui l'impossibilità di amare. L'esuberanza gli virilità tramutata in impotenza. E l'eroe allora deve conquistarsela questa donna, come vuole la tradizione fiabesca, superando difficili prove; a costo di dolorose rinunce; compiendo un lungo viaggio. La vita come via da percorrere. La storia d'amore come epica, epopea di un popolo. La favola ha per retroscena una realtà più prosaica. L'impossibilità ad amare nasce da barriere razziali e culturali. L'eroe deve conquistare la donna amata sottraendola al sospetto e ai pregiudizi del proprio popolo. L'europea è una straniera, i suoi gesti sono ingenui presagi di sciagura. Ma la sciagura l'aveva portata il mare tempo prima; aveva portato epidemie sconosciute e guerre sanguinose; aveva costretto popolazioni nomadiche per abitudine a marce forzate verso zone aride e inospitali abitate da tribù nemiche. L'eroe deve conquistare la donna amata imparando a farsi conoscere da lei e a conoscerla, valicando frontiere linguistiche. Un percorso lento, che richiede tempo. Il narratore ha ormai più di quattrocento anni quando ricorda come il male e il bene venuti insieme dal mare, dal mare sono stati portati via: la sua donna reclamata dai conquistatori bianchi. E Lui, l'eroe, che aveva osato rubare agli "uomini barba" la favilla della bellezza, punito come Prometeo, il fegato in pasto all'avvoltoio dell'amore, inchiodato alle rocce della Penisola del Capo per volere di Zeus. Il pre-coloniale si confonde così con il post-coloniale, la favola antica con quella moderna. La riscrittura del mito si arricchisce infatti anche di valenze intertestuali, la figura di Adamastor è presente nel "Gargantua e Pantagruele" di Rabelals e nei "Lusiadi" del poeta portoghese Camões; ma per assonanza Adamastor ricorda anche Adam Mantoor, lo schiavo di colore che incontra nel mezzo della 'wilderness' la vedova di un esploratore svedese, protagonista di un precedente romanzo di Brink ambientato nel Settecento: "Un istante nel vento" (1976; Rizzoli, 1988). Anche in quel caso il viaggio da compiere a fianco della bella donna bianca dai lunghi capelli neri è circolare: dal mare verso l'interno e poi nuovamente verso il mare. Anche in quel caso, l'amore impossibile diviene possibile solo dopo molte incomprensioni. Diviene possibile in una parentesi di sogno, e torna a essere impossibile quando i due personaggi fanno ritorno alla civilization per reintegrarsi nella comunità dei bianchi del Capo. La favola mitologica diviene parabola sulla storia del colonialismo. Una favola "elegante", la definisce Mario Vargas Llosa in una recensione apparsa sulla "New York Times Book Review", quella di Brink, di un'eleganza peraltro rispettata e valorizzata dalla bella e accurata traduzione di Pietro Deandrea, ol tre che dalla raffinata edizione, corredata di note e di un glossario per i termini che rimandano all'immaginario sudafricano. "Favola ironica" anche, ma più ancora ricostruzione allegorica della storia del luogo d'origine della colonizzazione del Sudefrica, il Capo delle Tempeste (Port Elizabeth e la Baia di Algoa), come il Capo di Buona Speranza. Da lì i portoghesi prima, gli olandesi poi, avevano intrapreso i loro iniqui baratti con le popolazioni locali, come quella dei Khoikhoin, il "popolo dei popoli", il popolo del narratore, respingendole via via verso l'interno del paese. Là, in quel luogo, nel punto in cui come una tempesta di sventura erano approdati i conquistatori, dove come una buona speranza l'eroe aveva incontrato la sua donna, il cerchio si chiude alla fine del tempo su di un viaggio che va da casa a casa. Un viaggio circolare, che segue le spire del tempo africano, chiaramente simboleggiato, in una delle sue rappresentazioni, dal serpente che si morde la coda, l'Uroboro. E il viaggio compiuto dal narratore a capo della sua tribù verso il nord-est del paese è lo stesso che i coloni boeri seguirono più tardi nella loro progressiva esplorazione del territorio. Boero di origine è anche André Brink, scrittore che si è sempre distinto per il suo spirito liberale e libertario. E "liberale" è un termine riduttivo per tutti coloro che come Brink hanno colorato la propria scrittura e il proprio impegno intellettuale con la trasparenza della protesta e della denuncia contro il Sudafrica razzista. Come Brink, il poeta, pittore, romanziere e amico Breyten Breytenbach, che avendo sposato una vietnamita aveva infranto il codice morale e razziale delle leggi sui matrimoni misti, aveva tradito i boeri, era emigrato a Parigi, come racconta Brink e come racconta egli stesso nel suo ultimo libro "Ritorno in paradiso" (Costa & Nolan, 1994). Oppure come il romanziere, amico e collega John Maxwell Coetzee, con il quale Brink ha curato l'edizione di un'antologia di racconti di scrittori sudafricani, "A LandApart" (1986), e con cui condivide, oltre alla comune esperienza dell'insegnamento universitario, talune tematiche. Anche Coetzee aveva parlato dell'improbabile quanto impossibile amore tra un nero muto perché mutilato della lingua e una donna bianca dai capelli fluttuanti emersa dalle onde come un anemone di mare, in "Foe" (Rizzoli, 1987). Anche in quel caso la simbolica impossibilità ad amare del nero era metafora della recisione di un insondabile legame con le pro prie origini, la terra e la lingua-madre. Boero, si diceva, André Brink, ma rinato "a Parigi, su una panchina del Jardin du Luxembourg, uno dei primi giorni di primavera del 1960", - come recita il brano di prosa autobiografica affiancato in traduzione in appendice al testo - quando, guardando da lontano al Sudafrica del massacro di Sharpeville, ha compreso che la scrittura sarebbe divenuta la sua arma per capire e accogliere anche gli altri, i neri. La rivisitazione del tema dell'amore possibile impossibile di un nero per una bianca, la favola sul tema dell'incontro con "l'altro" viene raccontata da Brink liberata dai consueti cliché. Il riferimento è qui ai molti film impregnati di romanticismo in cui l'incontro con l'Altro aveva per sfondo scenari da premio fotografico, come "Il tè nel deserto", dove a incontrarsi erano la cultura araba e quella europea, oppure "Balla coi lupi", dove però la bella indiana era in realtà una bianca. Fino a ora, tra l'altro, anche la fama di André Brink in Italia è rimasta legata a un film del 1989 che annoverava tra gli interpreti principali Marlon Brando, diretto da Euzhan Palcy e tratto dal suo romanzo: "Un'arida stagione bianca" (1979; Frassinelli, 1989). Nelle opere di Brink, invece, i due personaggi sono entrambi, anche se in modo diverso, belli, affascinanti, dotati di una forte carica di sensualità, mossi dallo stesso desiderio l'uno verso l'altra, frenati dagli stessi timori e dalle stesse incomprensioni. L'amore impossibile diviene possibile solo quando i due protagonisti si incontrano su un piano paritetico, dopo aver esperito entrambi rinunce e umiliazioni. La rinuncia all'appartenenza, in primo luogo, a un pezzo della propria identità etnica e culturale.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.