Narrare implica prendere posizione. Il narratore assume un punto di vista che determina, per il lettore, la natura di ciò che viene narrato. Da tale posizionamento è possibile dedurre l’identità della voce narrante. Attraendo una tradizione filosofica e letteraria che va da Walter Benjamin a Primo Levi, Joan-Carles Mèlich ci ricorda che il nucleo della narrazione è la memoria e che, pertanto, è nella trasmissione che si definisce l’identità del lettore: il lettore è colui che ascolta, che presta attenzione all’altro. A partire da questa premessa, l’articolo suggerisce che, in effetti, esiste un tipo di narratore che è fondamentalmente un ascoltatore, un testimone, disposto a prestare la propria attenzione e la propria parola agli altri per rendere presente la loro voce assente, ostruita o silenziata. È il tipo di narratore caratteristico della letteratura testimoniale, ma lo troviamo anche in molti racconti sulla migrazione i cui narratori, tralasciando persino il proprio dramma personale, concedono la parola alla moltitudine costituita da milioni di migranti che nel XXI secolo si spostano o vengono spostati dai loro territori e, molto spesso, mancano dei mezzi per farsi ascoltare da soli in un contesto che li opprime sistematicamente, riducendoli a manodopera sacrificabile, utile solo in quanto risorsa per il mercato neoliberale postcoloniale. Sotto questa chiave di analisi, propongo la lettura di tre racconti colombiani sulla migrazione che si muovono tra finzione e non finzione: Desterrados (2001) di Alfredo Molano; El síndrome de Ulises (2005) di Santiago Gamboa e Transterrados (2018) di Consuelo Triviño.
La lengua plural de la distancia migración, ética e identidad narrativa en la obra de Alfredo Molano, Consuelo Triviño y Santiago Gamboa
Diego Alexander Vélez QuirozFirst
2025-01-01
Abstract
Narrare implica prendere posizione. Il narratore assume un punto di vista che determina, per il lettore, la natura di ciò che viene narrato. Da tale posizionamento è possibile dedurre l’identità della voce narrante. Attraendo una tradizione filosofica e letteraria che va da Walter Benjamin a Primo Levi, Joan-Carles Mèlich ci ricorda che il nucleo della narrazione è la memoria e che, pertanto, è nella trasmissione che si definisce l’identità del lettore: il lettore è colui che ascolta, che presta attenzione all’altro. A partire da questa premessa, l’articolo suggerisce che, in effetti, esiste un tipo di narratore che è fondamentalmente un ascoltatore, un testimone, disposto a prestare la propria attenzione e la propria parola agli altri per rendere presente la loro voce assente, ostruita o silenziata. È il tipo di narratore caratteristico della letteratura testimoniale, ma lo troviamo anche in molti racconti sulla migrazione i cui narratori, tralasciando persino il proprio dramma personale, concedono la parola alla moltitudine costituita da milioni di migranti che nel XXI secolo si spostano o vengono spostati dai loro territori e, molto spesso, mancano dei mezzi per farsi ascoltare da soli in un contesto che li opprime sistematicamente, riducendoli a manodopera sacrificabile, utile solo in quanto risorsa per il mercato neoliberale postcoloniale. Sotto questa chiave di analisi, propongo la lettura di tre racconti colombiani sulla migrazione che si muovono tra finzione e non finzione: Desterrados (2001) di Alfredo Molano; El síndrome de Ulises (2005) di Santiago Gamboa e Transterrados (2018) di Consuelo Triviño.| File | Dimensione | Formato | |
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