Nel contacio 32 (= 48 Gr. De M.), strr. 7,4-8,8, di Romano il Melodo entra in gioco la complessa tematica del ridere / sorridere e desta sorpresa che ad avvalorare, seppure indirettamente, l’atto del gelan / meidian quale manifestazione dei sentimenti di chara / hilarotes / phaidrotes sia proprio Gesù, colui che, secondo le ripetute asserzioni dei Padri della Chiesa, «non ha mai riso e neppure sorriso» ed anzi, «per quanto si legge dalla narrazione dei Vangeli, definisce miseri quelli che ne sono preda». Il tema del riso e del sorriso, nell’accezione semantica più ampia che va dalla gioia / allegria alla derisione / scherno, dalla condizione interiore alla sua espressione manifesta, costituisce senza dubbio un argomento per il quale il Melodo nutre un notevole interesse. Riguardo a Gesù, in particolare, il poeta si conforma a quanto riportato nei racconti evangelici, ma nello stesso tempo – per un probabile intento polemico di natura antimonofisita – sembra non perdere occasione per riadattare o creare situazioni da cui possa trasparire il sentimento dell’esultanza di Cristo, il sorriso interiore della gioia. In un componimento dedicato alla Resurrezione di Gesù, cont. 25 = 42 Gr. de M., il Melodo tuttavia si pone esplicitamente al di là dello statuto fissato sia dalle fonti scritturali sia dall’esegesi patristica: con il participio aoristo meidiasas (str. 9,1) Romano attribuisce infatti a Gesù un sorriso che non si limita più alla sola sfera emotiva della chara interiore, ma appartiene propriamente alla dimensione fisiognomica del volto, che si distende in un riso leggero a fior di labbra. Il poeta si rivela comunque molto accorto sia sul piano linguistico sia riguardo al contesto. Nelle sue parole la fisicità del meidiama che si diffonde sul volto di Cristo sancisce, con il manifestarla apertamente, la chara massima in cui culmina tutto il racconto evangelico, e il sorriso di Gesù diventa così, attraverso la sua “eccezionalità”, segno privilegiato per sottolineare ai fedeli l’importanza del momento, della vittoria che Cristo ha conseguito su Satana, sulla Morte, sul Male. Dietro tale composto e gioioso meidiama si cela al tempo stesso un tono di beffarda rivalsa di Gesù nei riguardi di quegli avversari che in precedenza avevano riso di lui, facendolo oggetto di scherno. Anche in altre occasioni Romano lascia spazio alla derisione positiva, al riso/sorriso lecito di chi si prende beffe degli empi, degli increduli, delle stesse potenze infernali. In questo modo, da un punto di vista più generale, il poeta assume quella modalità del riso sempre coltivata a Bisanzio, dove non ci sono di fatto tracce di un geloion leggero e gratuito, ma prevale proprio il riso che mira a colpire l’avversario, a schiantarlo, a “nientificarlo (exoudenizein)”.
Il sorriso di Gesù. Una nota sui contaci di Romano il Melodo
TARAGNA, Anna Maria
2007-01-01
Abstract
Nel contacio 32 (= 48 Gr. De M.), strr. 7,4-8,8, di Romano il Melodo entra in gioco la complessa tematica del ridere / sorridere e desta sorpresa che ad avvalorare, seppure indirettamente, l’atto del gelan / meidian quale manifestazione dei sentimenti di chara / hilarotes / phaidrotes sia proprio Gesù, colui che, secondo le ripetute asserzioni dei Padri della Chiesa, «non ha mai riso e neppure sorriso» ed anzi, «per quanto si legge dalla narrazione dei Vangeli, definisce miseri quelli che ne sono preda». Il tema del riso e del sorriso, nell’accezione semantica più ampia che va dalla gioia / allegria alla derisione / scherno, dalla condizione interiore alla sua espressione manifesta, costituisce senza dubbio un argomento per il quale il Melodo nutre un notevole interesse. Riguardo a Gesù, in particolare, il poeta si conforma a quanto riportato nei racconti evangelici, ma nello stesso tempo – per un probabile intento polemico di natura antimonofisita – sembra non perdere occasione per riadattare o creare situazioni da cui possa trasparire il sentimento dell’esultanza di Cristo, il sorriso interiore della gioia. In un componimento dedicato alla Resurrezione di Gesù, cont. 25 = 42 Gr. de M., il Melodo tuttavia si pone esplicitamente al di là dello statuto fissato sia dalle fonti scritturali sia dall’esegesi patristica: con il participio aoristo meidiasas (str. 9,1) Romano attribuisce infatti a Gesù un sorriso che non si limita più alla sola sfera emotiva della chara interiore, ma appartiene propriamente alla dimensione fisiognomica del volto, che si distende in un riso leggero a fior di labbra. Il poeta si rivela comunque molto accorto sia sul piano linguistico sia riguardo al contesto. Nelle sue parole la fisicità del meidiama che si diffonde sul volto di Cristo sancisce, con il manifestarla apertamente, la chara massima in cui culmina tutto il racconto evangelico, e il sorriso di Gesù diventa così, attraverso la sua “eccezionalità”, segno privilegiato per sottolineare ai fedeli l’importanza del momento, della vittoria che Cristo ha conseguito su Satana, sulla Morte, sul Male. Dietro tale composto e gioioso meidiama si cela al tempo stesso un tono di beffarda rivalsa di Gesù nei riguardi di quegli avversari che in precedenza avevano riso di lui, facendolo oggetto di scherno. Anche in altre occasioni Romano lascia spazio alla derisione positiva, al riso/sorriso lecito di chi si prende beffe degli empi, degli increduli, delle stesse potenze infernali. In questo modo, da un punto di vista più generale, il poeta assume quella modalità del riso sempre coltivata a Bisanzio, dove non ci sono di fatto tracce di un geloion leggero e gratuito, ma prevale proprio il riso che mira a colpire l’avversario, a schiantarlo, a “nientificarlo (exoudenizein)”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.