Il libro affronta il problema del controllo ecclesiastico della lettura nell’Italia del Settecento portando alla luce le strategie adottate dalla Chiesa cattolica per sorvegliare stampa e cultura in un secolo segnato da grandi cambiamenti culturali e politici che vide il maturare della cultura dell’Illuminismo e la nascita in molti Stati italiani di una politica improntata al giurisdizionalismo. Analizzando il lungo periodo, secondo un arco cronologico che si snoda dalla fine del Seicento ai primi anni della Restaurazione, emergono continuità e mutamenti. Il Settecento – a lungo interpretato in sede storiografica come l’età del tramonto della Controriforma – appare qui anche nei suoi legami con quel passato, giacché esso fu attraversato sia dal torrente impetuoso dei Lumi sia dalla marea rimontante di un’ideologia di stampo controriformistico. Il diffondersi dell’Illuminismo sollecitò dagli anni Quaranta-Cinquanta del secolo una rinnovata attenzione da parte del clero e delle gerarchie romane verso il diffondersi dei libri e una ricca riflessione sui danni della lettura, che emerse in quel decennio come uno dei gravi pericoli cui sembrava nuovamente esposto, dopo la Controriforma, il popolo della penisola (capitolo I). La Chiesa romana impegnò perciò molte energie a difesa della propria egemonia culturale. Il fronte della repressione è ricostruito attraverso l’attività di censura dell’Indice e dell’Inquisizione e dando voce allo sconosciuto mondo dei relatori e consultori chiamati a esprimere pareri sui singoli libri. In quest’ambito, la riorganizzazione dell’Indice attuata da Benedetto XIV negli anni Cinquanta non appare il frutto di una politica di tolleranza, secondo un’immagine consolidata da tempo nella storiografia italiana, bensì l’esito di un tentativo di rinnovare le strategie censorie spostando l’obiettivo dalla censura all’autocensura dei letterati. La condanna, peraltro severa, del mondo philosophique appare infatti in ogni caso uno dei fili conduttori della censura ecclesiastica settecentesca, la cui vicenda si caratterizza anche per punizioni esemplari ai danni di lettori impenitenti (capitolo II). Vero è che durante il Settecento l’apparato censorio nato nell’epoca della Controriforma era sempre meno adeguato ad arrestare la circolazione di testi proibiti. Al di fuori dello Stato della Chiesa, infatti, il sistema inquisitoriale si incrinò perché i tribunali periferici dell’Inquisizione dovettero fare i conti con il progressivo organizzarsi di censure di Stato, contro le quali poco poterono i vari provvedimenti emanati dal Sant’Ufficio romano in funzione antigiurisdizionalista. In risposta alla crisi del sistema inquisitoriale in terra italiana le gerarchie ecclesiastiche romane puntarono però sulle armi della persuasione rilanciando il ruolo episcopale attraverso un significativo uso dell’enciclica e organizzando una campagna contro il diffondersi di libri pericolosi che doveva coinvolgere tutta la penisola (capitolo III). Gli anni Settanta-Ottanta costituirono poi una svolta riguardo alle strategie utilizzate dalle gerarchie romane in vista dell’orientamento dell’opinione pubblica. La Chiesa mosse allora alla conquista della parola scritta, combattendo i suoi nemici ad armi pari sullo stesso terreno. Fondamentale fu il rilancio di una guerra dei libri, ritmata dalla pubblicazione di confutazioni di testi all’Indice, di traduzioni di opere antiphilosophiques e di recensioni dirette a stroncare la produzione proibita, mentre l’elaborazione di una vera e propria pedagogia per le buone letture insegnava norme precise, additando i testi da bandire e quelli da leggere e rileggere, senza trascurare suggerimenti sulle stesse modalità di lettura (capitolo IV). Se lo sforzo attuato dalla Chiesa per governare stampa e lettura appare destinato al fallimento tra l’élite, occorre invece riflettere in modo problematico su quella che sembra la sua riuscita presso una categoria di lettori accomunati dal concetto di «infirmitas»: i giovani, le donne, i «semplici», quanti cioè, pur sapendo leggere, avevano poca dimestichezza con il mondo dei libri e furono educati a una radicata diffidenza verso il testo scritto. In ogni caso, spostando definitivamente il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive, la Chiesa romana accettò il confronto con i propri nemici nello spazio pubblico: un passaggio significativo nel quale è possibile cogliere le origini di meccanismi di controllo dell’opinione pubblica destinati a segnare profondamente la via italiana alla modernità.

Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento

DELPIANO, Patrizia
2007-01-01

Abstract

Il libro affronta il problema del controllo ecclesiastico della lettura nell’Italia del Settecento portando alla luce le strategie adottate dalla Chiesa cattolica per sorvegliare stampa e cultura in un secolo segnato da grandi cambiamenti culturali e politici che vide il maturare della cultura dell’Illuminismo e la nascita in molti Stati italiani di una politica improntata al giurisdizionalismo. Analizzando il lungo periodo, secondo un arco cronologico che si snoda dalla fine del Seicento ai primi anni della Restaurazione, emergono continuità e mutamenti. Il Settecento – a lungo interpretato in sede storiografica come l’età del tramonto della Controriforma – appare qui anche nei suoi legami con quel passato, giacché esso fu attraversato sia dal torrente impetuoso dei Lumi sia dalla marea rimontante di un’ideologia di stampo controriformistico. Il diffondersi dell’Illuminismo sollecitò dagli anni Quaranta-Cinquanta del secolo una rinnovata attenzione da parte del clero e delle gerarchie romane verso il diffondersi dei libri e una ricca riflessione sui danni della lettura, che emerse in quel decennio come uno dei gravi pericoli cui sembrava nuovamente esposto, dopo la Controriforma, il popolo della penisola (capitolo I). La Chiesa romana impegnò perciò molte energie a difesa della propria egemonia culturale. Il fronte della repressione è ricostruito attraverso l’attività di censura dell’Indice e dell’Inquisizione e dando voce allo sconosciuto mondo dei relatori e consultori chiamati a esprimere pareri sui singoli libri. In quest’ambito, la riorganizzazione dell’Indice attuata da Benedetto XIV negli anni Cinquanta non appare il frutto di una politica di tolleranza, secondo un’immagine consolidata da tempo nella storiografia italiana, bensì l’esito di un tentativo di rinnovare le strategie censorie spostando l’obiettivo dalla censura all’autocensura dei letterati. La condanna, peraltro severa, del mondo philosophique appare infatti in ogni caso uno dei fili conduttori della censura ecclesiastica settecentesca, la cui vicenda si caratterizza anche per punizioni esemplari ai danni di lettori impenitenti (capitolo II). Vero è che durante il Settecento l’apparato censorio nato nell’epoca della Controriforma era sempre meno adeguato ad arrestare la circolazione di testi proibiti. Al di fuori dello Stato della Chiesa, infatti, il sistema inquisitoriale si incrinò perché i tribunali periferici dell’Inquisizione dovettero fare i conti con il progressivo organizzarsi di censure di Stato, contro le quali poco poterono i vari provvedimenti emanati dal Sant’Ufficio romano in funzione antigiurisdizionalista. In risposta alla crisi del sistema inquisitoriale in terra italiana le gerarchie ecclesiastiche romane puntarono però sulle armi della persuasione rilanciando il ruolo episcopale attraverso un significativo uso dell’enciclica e organizzando una campagna contro il diffondersi di libri pericolosi che doveva coinvolgere tutta la penisola (capitolo III). Gli anni Settanta-Ottanta costituirono poi una svolta riguardo alle strategie utilizzate dalle gerarchie romane in vista dell’orientamento dell’opinione pubblica. La Chiesa mosse allora alla conquista della parola scritta, combattendo i suoi nemici ad armi pari sullo stesso terreno. Fondamentale fu il rilancio di una guerra dei libri, ritmata dalla pubblicazione di confutazioni di testi all’Indice, di traduzioni di opere antiphilosophiques e di recensioni dirette a stroncare la produzione proibita, mentre l’elaborazione di una vera e propria pedagogia per le buone letture insegnava norme precise, additando i testi da bandire e quelli da leggere e rileggere, senza trascurare suggerimenti sulle stesse modalità di lettura (capitolo IV). Se lo sforzo attuato dalla Chiesa per governare stampa e lettura appare destinato al fallimento tra l’élite, occorre invece riflettere in modo problematico su quella che sembra la sua riuscita presso una categoria di lettori accomunati dal concetto di «infirmitas»: i giovani, le donne, i «semplici», quanti cioè, pur sapendo leggere, avevano poca dimestichezza con il mondo dei libri e furono educati a una radicata diffidenza verso il testo scritto. In ogni caso, spostando definitivamente il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive, la Chiesa romana accettò il confronto con i propri nemici nello spazio pubblico: un passaggio significativo nel quale è possibile cogliere le origini di meccanismi di controllo dell’opinione pubblica destinati a segnare profondamente la via italiana alla modernità.
2007
Il Mulino
1
321
9788815121530
censura ecclesiastica; Illuminismo; XVIII secolo
P. DELPIANO
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/24132
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