Il saggio segnala fin da subito che il tema riguarda i rapporti contrattuali tra produttori di audiovisivi ed emittenti televisive. Osserva allora che, in questo contesto, l’espressione «diritti residuali» rinvia chiaramente ad attribuzioni che rimangono in capo al produttore nonostante la cessione all’emittente del diritto di utilizzare propri filmati. Di contro, rileva che le norme in campo non consentono d’individuare chiaramente la natura di queste attribuzioni, il meccanismo legale inteso a favorirne la permanenza in capo al produttore, e più in generale lo scopo perseguito con l’introduzione della disciplina che le prevede. Per conseguenza, lo studio si propone di ricostruire anzitutto l’origine e l’evoluzione di questa disciplina; per provare poi a precisarne il contenuto e la funzione. Il saggio rileva allora che la disciplina dei diritti residuali proviene dal diritto comunitario. A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 le direttive sulle televisioni senza frontiere hanno infatti individuato una possibile barriera all’ingresso sul mercato dei servizi televisivi nella scarsità di contenuti utilizzabili da eventuali nuove emittenti per le proprie trasmissioni. Per eliminarla hanno allora pensato di favorire la nascita di produttori indipendenti e di indurre per vie traverse le televisioni che commissionano loro la produzione di filmati ad acquisire solo una parte dei diritti di utilizzazione economica corrispondenti, così da agevolare la diffusione di quegli stessi contenuti in un secondo momento su altri canali o su altre piattaforme. Ecco allora comparire i «diritti residuali». Nel momento in cui passa all’analisi della disciplina italiana di recepimento, lo studio rileva che il legislatore interno e l’Autorità di garanzia per le comunicazioni sembrano avere inizialmente travisato il significato delle disposizioni comunitarie, da cui hanno dedotto limitazioni della libertà contrattuale delle emittenti e dei produttori generalizzate, assai penetranti, difficili da giustificare e forse inconciliabili con le fonti sovraordinate. Il saggio osserva tuttavia che con il decreto cd. Romani il diritto interno è stato almeno in parte riavvicinato a quello comunitario, a suo volta modificato medio tempore per tenere conto dell’attivazione di un nuovo canale di comunicazione – vale a dire la rete internet – e della comparsa di nuovi attori sul mercato. Proprio ai rapporti tra vecchi e nuovi players sono dedicate alcune considerazioni conclusive, in cui lo studio segnala che le norme interne, a differenza di quelle comunitarie, sembrano scritte per consentire l’applicazione della disciplina dei diritti residuali in una situazione per certi versi paradossale ed al momento soltanto futuribile: come strumento cioè per proteggere le emittenti televisive tradizionali dal potere di mercato dei fornitori di servizi media audiovisivi online.

I diritti residuali

COGO, Alessandro Enrico
2011-01-01

Abstract

Il saggio segnala fin da subito che il tema riguarda i rapporti contrattuali tra produttori di audiovisivi ed emittenti televisive. Osserva allora che, in questo contesto, l’espressione «diritti residuali» rinvia chiaramente ad attribuzioni che rimangono in capo al produttore nonostante la cessione all’emittente del diritto di utilizzare propri filmati. Di contro, rileva che le norme in campo non consentono d’individuare chiaramente la natura di queste attribuzioni, il meccanismo legale inteso a favorirne la permanenza in capo al produttore, e più in generale lo scopo perseguito con l’introduzione della disciplina che le prevede. Per conseguenza, lo studio si propone di ricostruire anzitutto l’origine e l’evoluzione di questa disciplina; per provare poi a precisarne il contenuto e la funzione. Il saggio rileva allora che la disciplina dei diritti residuali proviene dal diritto comunitario. A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 le direttive sulle televisioni senza frontiere hanno infatti individuato una possibile barriera all’ingresso sul mercato dei servizi televisivi nella scarsità di contenuti utilizzabili da eventuali nuove emittenti per le proprie trasmissioni. Per eliminarla hanno allora pensato di favorire la nascita di produttori indipendenti e di indurre per vie traverse le televisioni che commissionano loro la produzione di filmati ad acquisire solo una parte dei diritti di utilizzazione economica corrispondenti, così da agevolare la diffusione di quegli stessi contenuti in un secondo momento su altri canali o su altre piattaforme. Ecco allora comparire i «diritti residuali». Nel momento in cui passa all’analisi della disciplina italiana di recepimento, lo studio rileva che il legislatore interno e l’Autorità di garanzia per le comunicazioni sembrano avere inizialmente travisato il significato delle disposizioni comunitarie, da cui hanno dedotto limitazioni della libertà contrattuale delle emittenti e dei produttori generalizzate, assai penetranti, difficili da giustificare e forse inconciliabili con le fonti sovraordinate. Il saggio osserva tuttavia che con il decreto cd. Romani il diritto interno è stato almeno in parte riavvicinato a quello comunitario, a suo volta modificato medio tempore per tenere conto dell’attivazione di un nuovo canale di comunicazione – vale a dire la rete internet – e della comparsa di nuovi attori sul mercato. Proprio ai rapporti tra vecchi e nuovi players sono dedicate alcune considerazioni conclusive, in cui lo studio segnala che le norme interne, a differenza di quelle comunitarie, sembrano scritte per consentire l’applicazione della disciplina dei diritti residuali in una situazione per certi versi paradossale ed al momento soltanto futuribile: come strumento cioè per proteggere le emittenti televisive tradizionali dal potere di mercato dei fornitori di servizi media audiovisivi online.
2011
XIX-2010
215
243
Diritto d'autore; servizi media audiovisivi; televisioni; produttori indipendenti; contratti; AGCOM
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