“Cinquecento euro al mese, ma i contributi te li posso pagare solo per sessanta ore”: l’arroganza comincia dal “tu” che molti italiani usano con gli immigrati e si conclude con un’offerta inaccettabile per 50 ore alla settimana come badante. Ma dopo quattro anni in cui ha pulito vetri ai semafori, dormito in un furgone, evitato di poco la prostituzione e si è concessa a un avvocato per ottenere il permesso di soggiorno, la giovane uruguagia Estrella non può rifiutare: “Non voglio tornare ad essere un fantasma, un’irregolare”. L’incipit di Estrella ci porta direttamente al centro della trama: Estrella diventa la badante del novantunenne Marco, uomo di grande cultura, curiosità intellettuale e gentilezza, costretto su una sedia a rotelle. Invece di leggergli i romanzi suggeriti da lui, però, la protagonista/narratrice comincia presto a leggere brani del Diario di suo nonno Giuseppe, coetaneo di Marco. E’ questo l’espediente narrativo usato da Sestieri (uruguagio come Estrella) per tessere insieme più storie. Ebreo italiano, Giuseppe si è rifatto una vita in Uruguay dopo essere fuggito dall’Italia e dalle leggi razziali (e dopo aver aperto gli occhi sul fascismo), con il ricordo dell’ultimo saluto del padre: “Qualunque cosa ti accada, ricordati di vivere sempre con dignità.” Marco interrompe continuamente la sua badante/lettrice per raccontare una storia personale simile – prima soldato, poi partigiano nel Partito d’Azione. Tra letture e ricordi emerge il passato di Estrella, cresciuta con la nonna poiché la madre è una desaparecida del regime militare; il Diario di Giuseppe è l’unica cosa che le rimane del nonno, tornato in Italia con la famiglia legittima nel 1956, e che lei ha promesso alla nonna di non cercare mai. E poi, a margine delle giornate trascorse con Marco, si snoda la vicenda presente di Estrella, della sua convivente quasi stuprata dal datore di lavoro, degli amici bangladesi, turchi, senegalesi e moldavi che a Roma si destreggiano fra “i mille modi di sopravvivere in questa città priva di compassione”. Estrella percorre, talvolta in modo incerto, il confine che separa la narrazione robusta e convincente dai toni più didascalici. I dialoghi sono serrati, e i personaggi estremamente credibili; d’altra parte, a volte le connessioni storiche vengono esplicitate in modi inutilmente marcati: “la Storia, quella con la S maiuscola, la Storia delle lotte di liberazione, delle sofferenze dei popoli soggiogati dalle dittature è simile in tutti i paesi del mondo.” E’ la sensazione di trovarsi sul ciglio della retorica ad affiorare in certi momenti, pur non intaccando il giudizio positivo sul romanzo. Nell’ultimo capitolo, Estrella finisce in un CIE per due mesi, e cade in quell’abulica depressione che già all’inizio del XX secolo la letteratura medica definiva ‘sindrome da filo spinato’. Anche questo passaggio è narrato in maniera del tutto credibile, ma una volta terminata questa avvincente lettura si rimane con l’impressione che l’autore, in una volontà di legare la Storia al nostro presente (“se non si sa, se non si conosce, come ci si può difendere dai mostri?”) abbia privilegiato l’ampio respiro allo scavo di profondità, cercando di includere tutto – e che ci sia anche riuscito, in un certo senso. La struttura narrativa dove tout se tient, però, finisce per stridere con le lacerazioni e le opacità di cui sono fatte le vite di Estrella e dei suoi amici, come quelle di molti migranti in Italia.
Vita da fantasmi
DEANDREA, Pietro
2011-01-01
Abstract
“Cinquecento euro al mese, ma i contributi te li posso pagare solo per sessanta ore”: l’arroganza comincia dal “tu” che molti italiani usano con gli immigrati e si conclude con un’offerta inaccettabile per 50 ore alla settimana come badante. Ma dopo quattro anni in cui ha pulito vetri ai semafori, dormito in un furgone, evitato di poco la prostituzione e si è concessa a un avvocato per ottenere il permesso di soggiorno, la giovane uruguagia Estrella non può rifiutare: “Non voglio tornare ad essere un fantasma, un’irregolare”. L’incipit di Estrella ci porta direttamente al centro della trama: Estrella diventa la badante del novantunenne Marco, uomo di grande cultura, curiosità intellettuale e gentilezza, costretto su una sedia a rotelle. Invece di leggergli i romanzi suggeriti da lui, però, la protagonista/narratrice comincia presto a leggere brani del Diario di suo nonno Giuseppe, coetaneo di Marco. E’ questo l’espediente narrativo usato da Sestieri (uruguagio come Estrella) per tessere insieme più storie. Ebreo italiano, Giuseppe si è rifatto una vita in Uruguay dopo essere fuggito dall’Italia e dalle leggi razziali (e dopo aver aperto gli occhi sul fascismo), con il ricordo dell’ultimo saluto del padre: “Qualunque cosa ti accada, ricordati di vivere sempre con dignità.” Marco interrompe continuamente la sua badante/lettrice per raccontare una storia personale simile – prima soldato, poi partigiano nel Partito d’Azione. Tra letture e ricordi emerge il passato di Estrella, cresciuta con la nonna poiché la madre è una desaparecida del regime militare; il Diario di Giuseppe è l’unica cosa che le rimane del nonno, tornato in Italia con la famiglia legittima nel 1956, e che lei ha promesso alla nonna di non cercare mai. E poi, a margine delle giornate trascorse con Marco, si snoda la vicenda presente di Estrella, della sua convivente quasi stuprata dal datore di lavoro, degli amici bangladesi, turchi, senegalesi e moldavi che a Roma si destreggiano fra “i mille modi di sopravvivere in questa città priva di compassione”. Estrella percorre, talvolta in modo incerto, il confine che separa la narrazione robusta e convincente dai toni più didascalici. I dialoghi sono serrati, e i personaggi estremamente credibili; d’altra parte, a volte le connessioni storiche vengono esplicitate in modi inutilmente marcati: “la Storia, quella con la S maiuscola, la Storia delle lotte di liberazione, delle sofferenze dei popoli soggiogati dalle dittature è simile in tutti i paesi del mondo.” E’ la sensazione di trovarsi sul ciglio della retorica ad affiorare in certi momenti, pur non intaccando il giudizio positivo sul romanzo. Nell’ultimo capitolo, Estrella finisce in un CIE per due mesi, e cade in quell’abulica depressione che già all’inizio del XX secolo la letteratura medica definiva ‘sindrome da filo spinato’. Anche questo passaggio è narrato in maniera del tutto credibile, ma una volta terminata questa avvincente lettura si rimane con l’impressione che l’autore, in una volontà di legare la Storia al nostro presente (“se non si sa, se non si conosce, come ci si può difendere dai mostri?”) abbia privilegiato l’ampio respiro allo scavo di profondità, cercando di includere tutto – e che ci sia anche riuscito, in un certo senso. La struttura narrativa dove tout se tient, però, finisce per stridere con le lacerazioni e le opacità di cui sono fatte le vite di Estrella e dei suoi amici, come quelle di molti migranti in Italia.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.



