Nel passo di apertura del libro primo del Digesto Ulpiano riferisce che il giurista Celso aveva definito il diritto come arte del "bonum et aequum"; il presente saggio intende approfondire il significato e l'importanza che a tale espressione attribuivano i giuristi dell'Impero romano d'Oriente nei secoli VI-IX. A questo proposito si può anzitutto rilevare che l'anonimo epitomatore greco del Digesto i cui testi sono confluiti nei Basilici conservò la definizione riferendola al "nomos" e qualificando quest'ultimo come arte (techne) "di ciò che sta bene ed è conforme all'eguaglianza"; è significativo l'uso di quest'ultimo termine come il più adatto a rendere il concetto romano di "aequum". Le stesse scelte linguistiche, differenti da quelle di altri autori, compaiono nello schol. 2 a Basilici 2.1.1 (alla cui edizione si propongono qui alcune correzioni per una migliore interpretazione), forse da attribuire a Stefano, il quale cerca di dimostrare che, come la giustizia implica distribuzione egualitaria, cioè proporzionale alla dignità o merito, così il "nomos" (che etimologicamente deriva dal distribuire) contiene in se stesso la regola dell'eguaglianza proporzionale. Questi dati permettono di percepire meglio l'interesse che la definizione celsina suscitava nel secolo VI e di intendere nella stessa ottica i passi delle Novelle che legano giustizia ed eguaglianza nell'attività giudicante, considerando quindi anche quest'ultima come espressione della "techne" del diritto. Una più o meno velata polemica contro queste concezioni si può invece cogliere in un'opera di strategia militare, attribuibile preferibilmente al secolo VI, che nell'introduzione tratta delle parti della comunità politica e delle loro funzioni. Ad un'analisi un po' attenta, qui effettuata per la prima volta, appare che l'autore - affermando che la disciplina giuridica non costituisce né una "techne" né una "epistéme" a causa della variabilità delle leggi dipendente dall'atteggiamento del legislatore - concepisce il diritto come principio di ordine il cui primo scopo non è di realizzare la giustizia, ma di fornire un criterio per porre fine alle controversie. Esso dipende dalla volontà politica del legislatore e non si presterebbe quindi ad individuare delle regolarità e a fornire dei precetti per la sua determinazione; piuttosto, è necessario che i giudici lo applichino in modo imparziale. L'eguaglianza, pertanto, si ridurrebbe a quest'ultimo profilo, mentre quale sia il "bene" lo deciderebbe imperscrutabilmente il legislatore. Una concezione non troppo dissimile appare nel secolo VIII nel proemio dell'Ecloga di Leone III; ad essa invece reagisce verso la fine del secolo IX il patriarca Fozio che, redigendo il proemio dell'Eisagoge, propone una concezione elevatissima della "episteme" giuridica, attribuendole però un fondamento filosofico e teologico lontano dalla tradizione romana. Con l'imperatore Leone VI il riferimento al "bonum et aequum" pare trasferito integralmente sul piano dell'attività legislativa, venendo quindi a dipendere interamente dall'imperatore. Da tale piano non pare più destinato a staccarsi, finendo quindi per diventare una possibile connotazione eulogica di ogni legge imperiale.
La definizione del diritto di Celso nelle fonti giuridiche greche dei secoli VI-IX e l'Anonimo sulla strategia
GORIA, Fausto
2006-01-01
Abstract
Nel passo di apertura del libro primo del Digesto Ulpiano riferisce che il giurista Celso aveva definito il diritto come arte del "bonum et aequum"; il presente saggio intende approfondire il significato e l'importanza che a tale espressione attribuivano i giuristi dell'Impero romano d'Oriente nei secoli VI-IX. A questo proposito si può anzitutto rilevare che l'anonimo epitomatore greco del Digesto i cui testi sono confluiti nei Basilici conservò la definizione riferendola al "nomos" e qualificando quest'ultimo come arte (techne) "di ciò che sta bene ed è conforme all'eguaglianza"; è significativo l'uso di quest'ultimo termine come il più adatto a rendere il concetto romano di "aequum". Le stesse scelte linguistiche, differenti da quelle di altri autori, compaiono nello schol. 2 a Basilici 2.1.1 (alla cui edizione si propongono qui alcune correzioni per una migliore interpretazione), forse da attribuire a Stefano, il quale cerca di dimostrare che, come la giustizia implica distribuzione egualitaria, cioè proporzionale alla dignità o merito, così il "nomos" (che etimologicamente deriva dal distribuire) contiene in se stesso la regola dell'eguaglianza proporzionale. Questi dati permettono di percepire meglio l'interesse che la definizione celsina suscitava nel secolo VI e di intendere nella stessa ottica i passi delle Novelle che legano giustizia ed eguaglianza nell'attività giudicante, considerando quindi anche quest'ultima come espressione della "techne" del diritto. Una più o meno velata polemica contro queste concezioni si può invece cogliere in un'opera di strategia militare, attribuibile preferibilmente al secolo VI, che nell'introduzione tratta delle parti della comunità politica e delle loro funzioni. Ad un'analisi un po' attenta, qui effettuata per la prima volta, appare che l'autore - affermando che la disciplina giuridica non costituisce né una "techne" né una "epistéme" a causa della variabilità delle leggi dipendente dall'atteggiamento del legislatore - concepisce il diritto come principio di ordine il cui primo scopo non è di realizzare la giustizia, ma di fornire un criterio per porre fine alle controversie. Esso dipende dalla volontà politica del legislatore e non si presterebbe quindi ad individuare delle regolarità e a fornire dei precetti per la sua determinazione; piuttosto, è necessario che i giudici lo applichino in modo imparziale. L'eguaglianza, pertanto, si ridurrebbe a quest'ultimo profilo, mentre quale sia il "bene" lo deciderebbe imperscrutabilmente il legislatore. Una concezione non troppo dissimile appare nel secolo VIII nel proemio dell'Ecloga di Leone III; ad essa invece reagisce verso la fine del secolo IX il patriarca Fozio che, redigendo il proemio dell'Eisagoge, propone una concezione elevatissima della "episteme" giuridica, attribuendole però un fondamento filosofico e teologico lontano dalla tradizione romana. Con l'imperatore Leone VI il riferimento al "bonum et aequum" pare trasferito integralmente sul piano dell'attività legislativa, venendo quindi a dipendere interamente dall'imperatore. Da tale piano non pare più destinato a staccarsi, finendo quindi per diventare una possibile connotazione eulogica di ogni legge imperiale.File | Dimensione | Formato | |
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