Tra le clausole generali attualmente presenti nella legislazione cinese, la buona fede contrattuale, oggetto del presente lavoro, occupa un ruolo di primo piano: essa, (re) introdotta in Cina dall’articolo 4 dei Principi Generali del Diritto Civile nel 1986, dopo una prima fase di scarsa utilizzazione - dovuta alla visione strettamente positivistica del diritto che ha caratterizzato i primi anni delle riforme post-maoiste – ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un successo sempre crescente sia in giurisprudenza, sia in dottrina, tanto da essere, oggi, considerata dalla dottrina cinese come la “regina delle clausole”. Se l’importanza di tale principio, a livello declamatorio, è chiara, non lo è altrettanto la sua rilevanza nella pratica giudiziaria della Repubblica Popolare, né il sistema di valori che il termine con cui esso viene reso in mandarino, chengshi xinyong (诚实信用), richiama alla mente del giudice (o del madrelingua) cinese. Il presente studio si propone di analizzare questi due aspetti, poco noti in occidente anche a causa della barriera costituita dalla lingua. Da un lato, esamineremo dunque la nozione di buona fede in una prospettiva storico-linguistica, evidenziando gli elementi, autoctoni o appartenenti alla cultura giuridica occidentale, che hanno contribuito a dotarla del significato (o, meglio, dei significati) ad essa attualmente attribuiti in Cina; dall’altro, cercheremo di capire se, e come, il principio di buona fede venga, in concreto, utilizzato nelle corti cinesi. A tale scopo, verranno analizzati i casi decisi in base a tale principio dai Tribunali del popolo, di base e intermedi, nel periodo che va dall’ottobre 1999 all’ottobre del 2006, e riportati sul sito Zhongguo Fayuan Wang (中国法院网), patrocinato dalla Corte Suprema del Popolo della Repubblica Popolare Cinese (中华人民共和过最高人民法院,Zhonghuarenmingongheguo Zuigao renmin fayuan).
Le clausole generali nel diritto cinese : la clausola di buona fede e la giurisprudenza
NOVARETTI, Simona
2009-01-01
Abstract
Tra le clausole generali attualmente presenti nella legislazione cinese, la buona fede contrattuale, oggetto del presente lavoro, occupa un ruolo di primo piano: essa, (re) introdotta in Cina dall’articolo 4 dei Principi Generali del Diritto Civile nel 1986, dopo una prima fase di scarsa utilizzazione - dovuta alla visione strettamente positivistica del diritto che ha caratterizzato i primi anni delle riforme post-maoiste – ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un successo sempre crescente sia in giurisprudenza, sia in dottrina, tanto da essere, oggi, considerata dalla dottrina cinese come la “regina delle clausole”. Se l’importanza di tale principio, a livello declamatorio, è chiara, non lo è altrettanto la sua rilevanza nella pratica giudiziaria della Repubblica Popolare, né il sistema di valori che il termine con cui esso viene reso in mandarino, chengshi xinyong (诚实信用), richiama alla mente del giudice (o del madrelingua) cinese. Il presente studio si propone di analizzare questi due aspetti, poco noti in occidente anche a causa della barriera costituita dalla lingua. Da un lato, esamineremo dunque la nozione di buona fede in una prospettiva storico-linguistica, evidenziando gli elementi, autoctoni o appartenenti alla cultura giuridica occidentale, che hanno contribuito a dotarla del significato (o, meglio, dei significati) ad essa attualmente attribuiti in Cina; dall’altro, cercheremo di capire se, e come, il principio di buona fede venga, in concreto, utilizzato nelle corti cinesi. A tale scopo, verranno analizzati i casi decisi in base a tale principio dai Tribunali del popolo, di base e intermedi, nel periodo che va dall’ottobre 1999 all’ottobre del 2006, e riportati sul sito Zhongguo Fayuan Wang (中国法院网), patrocinato dalla Corte Suprema del Popolo della Repubblica Popolare Cinese (中华人民共和过最高人民法院,Zhonghuarenmingongheguo Zuigao renmin fayuan).File | Dimensione | Formato | |
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