Nella dottrina kantiana della virtù si profilano due concezioni divergenti, la prima contenuta nella Metafisica dei costumi, la seconda nell'Antropologia pragmatica. La prima dottrina, propriamente morale, viene definita come coercizione che accompagna il dovere, la virtù appare provvista di due caratteri fondamentali: anzitutto l'autocrazia, ovvero l'esercizio di una padronanza su se stessi che presuppone l'intenzione ferma di vincere con la ragione gli ostacoli degli impulsi naturali, in secondo luogo l'abitudine ad ascoltare la voce della legge, consuetudine onesta, seppure non abbia in sé un valore morale in senso stretto, che fa della virtù un habitus che è anche sensibilmente percepibile agli occhi della coscienza e del mondo. La seconda, invece, è definita da Kant nel contesto di quel «gioco di finzioni» che ha luogo tra gli uomini e determina «un'apparenza del bene negli altri che deve avere per noi il suo valore e (…) richiede rispetto, senza forse meritarlo» perché ne deriva «qualcosa di serio», ovvero l'imitazione del carattere morale anche priva di reale intenzione deontologica. Il problema che sorge consiste in ciò: alla luce di queste affermazioni così contrastanti come si può decifrare l'idea secondo cui la virtù nasce dall'imitazione dell'apparenza morale? Può Kant ammettere un'«apparenza morale permessa»? Tutto ciò ha il potere di far sorgere soltanto «emozioni» morali, non leggi, che si configurano ancora come mezzi della saggezza della natura, la quale aggiunge stimoli patologici all'impulso morale verso il bene come surrogato temporaneo della ragione per guidarci provvisoriamente, prima che la ragione sia giunta alla sua propria forza. Non pare che questo conflitto sia ricomponibile con un rimando alla differenza tra antroponomia e antropologia: se pure questa distinzione può giustificare la descrizione di comportamenti determinati da un'apparenza di virtù – poiché, infine, così gli uomini si comportano assai di frequente – essa non autorizza ad ammettere che tali comportamenti siano causa di azioni moralmente perfette. In questo senso, il tentativo di interpretare in maniera conciliativa la dichiarazione inaspettata di Kant può approdare a un chiarificazione soltanto parziale.

Le virtù apparenti in Kant

PRANTEDA, Maria Antonietta
2005-01-01

Abstract

Nella dottrina kantiana della virtù si profilano due concezioni divergenti, la prima contenuta nella Metafisica dei costumi, la seconda nell'Antropologia pragmatica. La prima dottrina, propriamente morale, viene definita come coercizione che accompagna il dovere, la virtù appare provvista di due caratteri fondamentali: anzitutto l'autocrazia, ovvero l'esercizio di una padronanza su se stessi che presuppone l'intenzione ferma di vincere con la ragione gli ostacoli degli impulsi naturali, in secondo luogo l'abitudine ad ascoltare la voce della legge, consuetudine onesta, seppure non abbia in sé un valore morale in senso stretto, che fa della virtù un habitus che è anche sensibilmente percepibile agli occhi della coscienza e del mondo. La seconda, invece, è definita da Kant nel contesto di quel «gioco di finzioni» che ha luogo tra gli uomini e determina «un'apparenza del bene negli altri che deve avere per noi il suo valore e (…) richiede rispetto, senza forse meritarlo» perché ne deriva «qualcosa di serio», ovvero l'imitazione del carattere morale anche priva di reale intenzione deontologica. Il problema che sorge consiste in ciò: alla luce di queste affermazioni così contrastanti come si può decifrare l'idea secondo cui la virtù nasce dall'imitazione dell'apparenza morale? Può Kant ammettere un'«apparenza morale permessa»? Tutto ciò ha il potere di far sorgere soltanto «emozioni» morali, non leggi, che si configurano ancora come mezzi della saggezza della natura, la quale aggiunge stimoli patologici all'impulso morale verso il bene come surrogato temporaneo della ragione per guidarci provvisoriamente, prima che la ragione sia giunta alla sua propria forza. Non pare che questo conflitto sia ricomponibile con un rimando alla differenza tra antroponomia e antropologia: se pure questa distinzione può giustificare la descrizione di comportamenti determinati da un'apparenza di virtù – poiché, infine, così gli uomini si comportano assai di frequente – essa non autorizza ad ammettere che tali comportamenti siano causa di azioni moralmente perfette. In questo senso, il tentativo di interpretare in maniera conciliativa la dichiarazione inaspettata di Kant può approdare a un chiarificazione soltanto parziale.
2005
La misura dell'uomo
Il Mulino
1
103
127
9788815108159
M. PRANTEDA
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