Le orazioni funebri in stile anglosassone sono un’arte. Nei momenti più tristi riescono a farti sorridere, se non a strapparti una mezza risata. Mi è capitato alle esequie di Claudio Gorlier, quando Paolo Bertinetti ha ricordato come Claudio potesse essere mordace, nei suoi commenti. In quel momento mi è tornato in mente il giorno in cui mi sono laureato, tanti anni fa. Entro in sala lauree, letteralmente paralizzato dall’emozione, e subito il Professor Gorlier, mio relatore di tesi, esorta caldamente la commissione a fare in fretta, “perché il candidato è in stato pre-comatoso”. Risata generale. Una battuta, quella, che paradossalmente mi ha aiutato a calmarmi proprio perché mi ha fatto sentire ridicolo. Che senso aveva preoccuparsi così tanto, infatti, di fronte a un uomo che aveva militato in Giustizia e Libertà e solo per miracolo era sfuggito a un vero plotone d’esecuzione? Ho conosciuto Claudio nei tardi anni ’80, verso la fine della sua lunga carriera, uno degli ultimi tra i suoi tantissimi allievi. Non aveva abbandonato (e non lo farà mai) la sua passione per il giornalismo, iniziata dopo la guerra come corrispondente de L’unità. Al terzo piano di Palazzo Nuovo si sentiva il ticchettare della sua macchina da scrivere. Si lamentava di spazi ristretti per scadenze ravvicinate (“600 parole per Hemingway, ma ti rendi conto?”), ma sotto sotto, da giornalista di razza, sembrava godere di queste sfide continue con il tempo e la sintesi. Come Cesare Cases, altro grande padre de L’Indice dei libri del mese, anche lui prediligeva la forma breve. In quegli anni Claudio era notissimo come colonna dell’anglistica italiana e uno dei padri dell’americanistica, autore di studi che spaziavano da John Donne alla cultura afro-americana. Parlando con gli studenti, i lettori di madrelingua della Facoltà di Magistero ne lodavano l’accento British impeccabile. Con quell’accento poteva assumere atteggiamenti molto snob, ma scendeva dalla cattedra come pochi altri accademici sapevano (o volevano) fare, spinto da una curiosità insaziabile, insofferente ad ogni steccato disciplinare. I suoi interessi spaziavano dagli autori francesi del ‘600 alle rovesciate di Carletto Parola (amava iniziare le frasi con incipit del tipo “Il mio amico Beppe Furino,…”). Claudio ironizzava sempre sugli studenti che leggevano solo i testi per i loro esami, o sui colleghi che si occupavano sempre delle stesse cose. Proprio verso la fine degli anni ’80, invece di raccogliere i frutti della sua carriera accademica, aveva fondato la cattedra (forse la prima in Italia) di Letterature dei Paesi di Lingua Inglese, cioè di quelli che stavano diventando gli ‘studi postcoloniali’. Quella curiosità era contagiosa. Frequentando i suoi corsi iniziò la mia passione per gli autori delle ex-colonie inglesi, soprattutto africane e caraibiche. Anche perché Claudio invitava gli autori a tenere cicli di lezioni: in questo modo l’aspetto teorico-analitico prendeva corpo in maniera indimenticabile, e lo studente appassionato si rendeva conto dell’attualità vitale dietro alla creazione letteraria. Come scordare le prove di scrittura creativa in inglese con l’indiano Chaman Nahal, per esempio? In quel periodo non ne ero consapevole, ma col senno di poi corsi come quelli gettavano semi per un sguardo terzomondista che significava ossigeno, nel disimpegno asfissiante degli anni ’80. E incrinavano l’ironia postmoderna con un recupero della grande Storia, oltre che delle grandi narrazioni. Claudio è andato poi in pensione troppo presto. Negli ultimi anni scriveva quasi esclusivamente per i giornali e non veniva più volentieri in università. Se glielo facevo notare, mi rispondeva come ai colleghi che gli rimproveravano di non indossare la toga all’inaugurazione dell’anno accademico: “Ma sai, io sono nato a Perosa Argentina…” Una volta nominato “Professore Emerito”, continuava ad ironizzare sulla parola che di solito si associa a quell’aggettivo. Se si discuteva di politica non eravamo quasi mai d’accordo, a partire dalla questione TAV. Ma la sua curiosità vorace, di pari passo con la sua avversione a molti dogmi, non si è mai assopita. Anzi, negli ultimi mesi di sofferenze sembrava riacquistare fervore civile. Nonostante grandi difficoltà di deambulazione, la scorsa estate ha sfidato un’afa feroce per scendere faticosamente in strada ed assistere alla sfilata del Gay Pride. Nelle ultime settimane, ormai impossibilitato ad alzarsi dal letto e ridotto a uno straziante mutismo, gli è stato chiesto cosa pensava del referendum costituzionale renziano: ha esclamato un “No!” a piena gola che mi ha sbalordito. Mi risuona ancora in mente, e non posso fare a meno di associarlo all’esortazione di Dylan Thomas ad infuriarsi contro il morire della luce. Claudio non ha mai smesso di essere partigiano. La scorsa primavera gli ho detto che avrei passato il 25 aprile a Melle, in Val Varaita, per una commemorazione con camminata sui sentieri della Resistenza. Ha preso a farmi nomi e cognomi dei martiri fucilati in quel paese. Li ho poi ritrovati tutti, sulle lapidi in piazza. Sans adieu, Claudio, come salutavi sempre tu.

Ricordo di Claudio Gorlier: La curiosità insaziabile di un partigiano con l'accento british

DEANDREA, Pietro
2017-01-01

Abstract

Le orazioni funebri in stile anglosassone sono un’arte. Nei momenti più tristi riescono a farti sorridere, se non a strapparti una mezza risata. Mi è capitato alle esequie di Claudio Gorlier, quando Paolo Bertinetti ha ricordato come Claudio potesse essere mordace, nei suoi commenti. In quel momento mi è tornato in mente il giorno in cui mi sono laureato, tanti anni fa. Entro in sala lauree, letteralmente paralizzato dall’emozione, e subito il Professor Gorlier, mio relatore di tesi, esorta caldamente la commissione a fare in fretta, “perché il candidato è in stato pre-comatoso”. Risata generale. Una battuta, quella, che paradossalmente mi ha aiutato a calmarmi proprio perché mi ha fatto sentire ridicolo. Che senso aveva preoccuparsi così tanto, infatti, di fronte a un uomo che aveva militato in Giustizia e Libertà e solo per miracolo era sfuggito a un vero plotone d’esecuzione? Ho conosciuto Claudio nei tardi anni ’80, verso la fine della sua lunga carriera, uno degli ultimi tra i suoi tantissimi allievi. Non aveva abbandonato (e non lo farà mai) la sua passione per il giornalismo, iniziata dopo la guerra come corrispondente de L’unità. Al terzo piano di Palazzo Nuovo si sentiva il ticchettare della sua macchina da scrivere. Si lamentava di spazi ristretti per scadenze ravvicinate (“600 parole per Hemingway, ma ti rendi conto?”), ma sotto sotto, da giornalista di razza, sembrava godere di queste sfide continue con il tempo e la sintesi. Come Cesare Cases, altro grande padre de L’Indice dei libri del mese, anche lui prediligeva la forma breve. In quegli anni Claudio era notissimo come colonna dell’anglistica italiana e uno dei padri dell’americanistica, autore di studi che spaziavano da John Donne alla cultura afro-americana. Parlando con gli studenti, i lettori di madrelingua della Facoltà di Magistero ne lodavano l’accento British impeccabile. Con quell’accento poteva assumere atteggiamenti molto snob, ma scendeva dalla cattedra come pochi altri accademici sapevano (o volevano) fare, spinto da una curiosità insaziabile, insofferente ad ogni steccato disciplinare. I suoi interessi spaziavano dagli autori francesi del ‘600 alle rovesciate di Carletto Parola (amava iniziare le frasi con incipit del tipo “Il mio amico Beppe Furino,…”). Claudio ironizzava sempre sugli studenti che leggevano solo i testi per i loro esami, o sui colleghi che si occupavano sempre delle stesse cose. Proprio verso la fine degli anni ’80, invece di raccogliere i frutti della sua carriera accademica, aveva fondato la cattedra (forse la prima in Italia) di Letterature dei Paesi di Lingua Inglese, cioè di quelli che stavano diventando gli ‘studi postcoloniali’. Quella curiosità era contagiosa. Frequentando i suoi corsi iniziò la mia passione per gli autori delle ex-colonie inglesi, soprattutto africane e caraibiche. Anche perché Claudio invitava gli autori a tenere cicli di lezioni: in questo modo l’aspetto teorico-analitico prendeva corpo in maniera indimenticabile, e lo studente appassionato si rendeva conto dell’attualità vitale dietro alla creazione letteraria. Come scordare le prove di scrittura creativa in inglese con l’indiano Chaman Nahal, per esempio? In quel periodo non ne ero consapevole, ma col senno di poi corsi come quelli gettavano semi per un sguardo terzomondista che significava ossigeno, nel disimpegno asfissiante degli anni ’80. E incrinavano l’ironia postmoderna con un recupero della grande Storia, oltre che delle grandi narrazioni. Claudio è andato poi in pensione troppo presto. Negli ultimi anni scriveva quasi esclusivamente per i giornali e non veniva più volentieri in università. Se glielo facevo notare, mi rispondeva come ai colleghi che gli rimproveravano di non indossare la toga all’inaugurazione dell’anno accademico: “Ma sai, io sono nato a Perosa Argentina…” Una volta nominato “Professore Emerito”, continuava ad ironizzare sulla parola che di solito si associa a quell’aggettivo. Se si discuteva di politica non eravamo quasi mai d’accordo, a partire dalla questione TAV. Ma la sua curiosità vorace, di pari passo con la sua avversione a molti dogmi, non si è mai assopita. Anzi, negli ultimi mesi di sofferenze sembrava riacquistare fervore civile. Nonostante grandi difficoltà di deambulazione, la scorsa estate ha sfidato un’afa feroce per scendere faticosamente in strada ed assistere alla sfilata del Gay Pride. Nelle ultime settimane, ormai impossibilitato ad alzarsi dal letto e ridotto a uno straziante mutismo, gli è stato chiesto cosa pensava del referendum costituzionale renziano: ha esclamato un “No!” a piena gola che mi ha sbalordito. Mi risuona ancora in mente, e non posso fare a meno di associarlo all’esortazione di Dylan Thomas ad infuriarsi contro il morire della luce. Claudio non ha mai smesso di essere partigiano. La scorsa primavera gli ho detto che avrei passato il 25 aprile a Melle, in Val Varaita, per una commemorazione con camminata sui sentieri della Resistenza. Ha preso a farmi nomi e cognomi dei martiri fucilati in quel paese. Li ho poi ritrovati tutti, sulle lapidi in piazza. Sans adieu, Claudio, come salutavi sempre tu.
2017
www.lindiceonline.com
Gorlier, resistenza, letteratura inglese, letteratura americana, letterature postcoloniali, giornalismo
P. Deandrea
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1623964
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