Primi anni ’80: nell’immaginaria cittadina inglese di Beechwood Brook, un ragazzo anglo-giamaicano viene picchiato a morte da ignoti. Siamo nel primo periodo Thatcher, con un clima di relazioni inter-etniche sempre più tese nelle grandi metropoli del Paese (ben ricostruite da Carlo Osta nella Postfazione): quindi l’indagine sul caso richiede ancor più meticolosità e cautela del solito, per non accendere una polveriera sociale pronta ad esplodere. Se ne occupa il sovrintendente capo Chris Tallboy, il cui tatto e competenza sono davvero necessarie per gestire una stazione di polizia dalle dinamiche complesse e spesso impreviste. La forza della scrittura di Wainwright sta proprio nella capacità di ricostruire tutte le sfumature di un’indagine; non solo quelle tecniche, ma anche psicologiche e morali. Tallboy incarna la “rigorosa componente etica” che, scrive Osta, caratterizza tutta l’opera dell’autore. John Wainwright (1921-55) aveva una esperienza ventennale di poliziotto dai saldi principi etici spesso frustrati, se non osteggiati, dal suo stesso ambiente. Una non-carriera, quindi, che lo spinge a laurearsi in Legge e in seguito a darsi alla narrativa. Dopo alcuni anni di doppio lavoro, e un conseguente esaurimento nervoso, diventa scrittore a tempo pieno e prolificissimo maestro nel genere del police procedural, annoverando Georges Simenon tra i suoi estimatori. Paginauno ha già pubblicato nel 2015 Stato di fermo (Brainwash), da cui sono state tratte due note versioni cinematografiche. Wainwright si diverte a farsi beffe delle aspettative televisivamente irrealistiche dei lettori, come in questo riferimento a Kojak: “tutti sanno che l’arma del delitto è molto più importante di un detective calvo di New York con l’impermeabile stropicciato, che entra nel suo ufficio in disordine e urla: ‘Crocker!’” Nel caso di Anatomy of a Riot, agli ingredienti del poliziesco classico si aggiunge la gestione di una rivolta di strada, e per di più di natura razziale. Il risultato finale è un vero page-turner, avvincente sino alla conclusione, con alcuni personaggi di contorno memorabili come la figlia del poliziotto razzista, che grazie ai “sogni illuminati dei grandi autori” impara “dai libri il vero significato della tolleranza, a superare i pregiudizi innati che la maggior parte delle persone neanche riconoscono in se stesse”. E qui si arriva al punto dolente del romanzo: forse le letture di Wainwright sull’argomento avevano qualche carenza. Nonostante la sua apertura per la tolleranza e le diversità, l’autore è smaccatamente più propenso a ricostruire il vissuto, e quindi la ragione dietro ai comportamenti, di poliziotti e inglesi bianchi. Gli immigrati afro-caraibici del romanzo sembrano spuntare negli anni ’80 come dal nulla, con ben poche tracce del passato coloniale subìto, del razzismo istituzionale che, per esempio nelle politiche del lavoro, dagli anni ’40 ha costituito il puntello burocratico della xenofobia diffusa, e li ha resi cittadini di seconda classe. Un illuminato come il protagonista Tallboy, la cui prospettiva è assai vicina a quella autoriale, si scaglia ad esempio contro le Race Relations Act (leggi contro la discriminazione razziale) definendole buoniste ed inutili, se non peggiorative; il padre della vittima invece ripensa alla Giamaica con nostalgia primitivista: “Certo, erano poveri. Ma di una povertà calda. Una povertà felice.” Allargando il discorso, non è neanche facile accettare mogli di poliziotti come Susan Tallboy, che funge da faro contro le tempeste del mondo esterno alla maniera di un vittoriano angelo del focolare: “senza quel genere di donna speciale, non si può diventare dei grandi poliziotti.” Per quanto poi riguarda il dissenso e a contestazione, letture radicali come Marx e Che Guevara sono menzionate con uno scherno quasi imbarazzante: “prendevano dei bravi ragazzi […] e li fomentavano fino a pensare che il mondo fosse là per essere conquistato. C’era solo da sconquassare la classe dirigente e dargli una leggera sbattuta, e i problemi sarebbero finiti.” In un certo senso, anche questo difetto dell’opera può essere visto come un pregio: involontariamente, Wainwright ci fa capire come sia difficile, nonostante un’enorme dose di buona volontà, liberarsi del proprio conservatorismo impero-centrico e riconoscere davvero i propri pregiudizi. Siamo ancora piuttosto lontani dai grandi affreschi sociali e interculturali di una giallista sopraffina come Ruth Rendell. E, temo, siamo ancora qualche passo indietro rispetto a quella linea incerta (e giustamente contestata) che separa il romanzo di genere dalla grande letteratura.

La buona volontà non basta

Deandrea Pietro
2020-01-01

Abstract

Primi anni ’80: nell’immaginaria cittadina inglese di Beechwood Brook, un ragazzo anglo-giamaicano viene picchiato a morte da ignoti. Siamo nel primo periodo Thatcher, con un clima di relazioni inter-etniche sempre più tese nelle grandi metropoli del Paese (ben ricostruite da Carlo Osta nella Postfazione): quindi l’indagine sul caso richiede ancor più meticolosità e cautela del solito, per non accendere una polveriera sociale pronta ad esplodere. Se ne occupa il sovrintendente capo Chris Tallboy, il cui tatto e competenza sono davvero necessarie per gestire una stazione di polizia dalle dinamiche complesse e spesso impreviste. La forza della scrittura di Wainwright sta proprio nella capacità di ricostruire tutte le sfumature di un’indagine; non solo quelle tecniche, ma anche psicologiche e morali. Tallboy incarna la “rigorosa componente etica” che, scrive Osta, caratterizza tutta l’opera dell’autore. John Wainwright (1921-55) aveva una esperienza ventennale di poliziotto dai saldi principi etici spesso frustrati, se non osteggiati, dal suo stesso ambiente. Una non-carriera, quindi, che lo spinge a laurearsi in Legge e in seguito a darsi alla narrativa. Dopo alcuni anni di doppio lavoro, e un conseguente esaurimento nervoso, diventa scrittore a tempo pieno e prolificissimo maestro nel genere del police procedural, annoverando Georges Simenon tra i suoi estimatori. Paginauno ha già pubblicato nel 2015 Stato di fermo (Brainwash), da cui sono state tratte due note versioni cinematografiche. Wainwright si diverte a farsi beffe delle aspettative televisivamente irrealistiche dei lettori, come in questo riferimento a Kojak: “tutti sanno che l’arma del delitto è molto più importante di un detective calvo di New York con l’impermeabile stropicciato, che entra nel suo ufficio in disordine e urla: ‘Crocker!’” Nel caso di Anatomy of a Riot, agli ingredienti del poliziesco classico si aggiunge la gestione di una rivolta di strada, e per di più di natura razziale. Il risultato finale è un vero page-turner, avvincente sino alla conclusione, con alcuni personaggi di contorno memorabili come la figlia del poliziotto razzista, che grazie ai “sogni illuminati dei grandi autori” impara “dai libri il vero significato della tolleranza, a superare i pregiudizi innati che la maggior parte delle persone neanche riconoscono in se stesse”. E qui si arriva al punto dolente del romanzo: forse le letture di Wainwright sull’argomento avevano qualche carenza. Nonostante la sua apertura per la tolleranza e le diversità, l’autore è smaccatamente più propenso a ricostruire il vissuto, e quindi la ragione dietro ai comportamenti, di poliziotti e inglesi bianchi. Gli immigrati afro-caraibici del romanzo sembrano spuntare negli anni ’80 come dal nulla, con ben poche tracce del passato coloniale subìto, del razzismo istituzionale che, per esempio nelle politiche del lavoro, dagli anni ’40 ha costituito il puntello burocratico della xenofobia diffusa, e li ha resi cittadini di seconda classe. Un illuminato come il protagonista Tallboy, la cui prospettiva è assai vicina a quella autoriale, si scaglia ad esempio contro le Race Relations Act (leggi contro la discriminazione razziale) definendole buoniste ed inutili, se non peggiorative; il padre della vittima invece ripensa alla Giamaica con nostalgia primitivista: “Certo, erano poveri. Ma di una povertà calda. Una povertà felice.” Allargando il discorso, non è neanche facile accettare mogli di poliziotti come Susan Tallboy, che funge da faro contro le tempeste del mondo esterno alla maniera di un vittoriano angelo del focolare: “senza quel genere di donna speciale, non si può diventare dei grandi poliziotti.” Per quanto poi riguarda il dissenso e a contestazione, letture radicali come Marx e Che Guevara sono menzionate con uno scherno quasi imbarazzante: “prendevano dei bravi ragazzi […] e li fomentavano fino a pensare che il mondo fosse là per essere conquistato. C’era solo da sconquassare la classe dirigente e dargli una leggera sbattuta, e i problemi sarebbero finiti.” In un certo senso, anche questo difetto dell’opera può essere visto come un pregio: involontariamente, Wainwright ci fa capire come sia difficile, nonostante un’enorme dose di buona volontà, liberarsi del proprio conservatorismo impero-centrico e riconoscere davvero i propri pregiudizi. Siamo ancora piuttosto lontani dai grandi affreschi sociali e interculturali di una giallista sopraffina come Ruth Rendell. E, temo, siamo ancora qualche passo indietro rispetto a quella linea incerta (e giustamente contestata) che separa il romanzo di genere dalla grande letteratura.
2020
xxxvii
3
27
27
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Romanzo giallo, crime novel, Wainwright, Black Britain, razzismo
Deandrea Pietro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2318/1737297
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