I resti umani delle popolazioni passate conservano nella loro matericità la storia biologica e sociale degli individui a cui sono appartenuti e costituiscono delle vere e proprie osteobiografie uniche ed irripetibili funzionali alla ricostruzione dell’evoluzione della nostra specie nelle sue svariate componenti, da quelle prettamente morfologiche e biomolecolari a quelle socio-culturali. Per decenni i contesti funerari sono stati oggetto di ricerche sistematiche da parte dei differenti professionisti del settore archeologico e antropologico, andando molto spesso a scardinare la componente biologica da quella materiale, rendendo in tal modo il potenziale informativo di tali depositi non pienamente espresso e molte volte relegato alla sola comunità scientifica. Sebbene negli ultimi anni le indagini archeologiche disciplinino l’acquisizione di tali patrimoni biologici per le età ed epoche antiche, la genesi delle collezioni antropologiche è da individuare già alla metà del XIX secolo nel fenomeno antiquario del collezionismo a matrice coloniale o etnologica, oltre che nell’acquisizione accademica di ambito medico-legale, con il conseguente innescarsi – soprattutto negli ultimi decenni – di problematiche etiche non di poco conto. Lo stesso Codice Etico dell’ICOM (art. 2.5) segnala infatti la necessità di un’attenta e consapevole fruizione di tali “materiali sensibili”, ricordando che essi «devono essere acquisiti solo se possono essere collocati in un luogo sicuro e trattati con rispetto. Ciò deve avvenire secondo gli standard professionali e con le convinzioni e gli interessi, se conosciuti, dei membri delle comunità, dei gruppi etnici o religiosi da cui provengono». Emerge pertanto che l’approccio ai resti umani richiede l’adozione di nuove pratiche di gestione da mettere in atto a partire dal momento delle fasi di individuazione, sino a quelle di archiviazione, ricerca e fruizione, modulate sui diversi pubblici e sui differenti contesti socio-culturali in cui si opera. Se consideriamo che «una comunità di patrimonio […] desidera, nell’ambito dell’azione pubblica, sostenere e trasmettere [il patrimonio culturale] alle generazioni future» (art. 2b, Convenzione di Faro 2005), è chiaro che questi principi applicati ai beni antropologici possono essere attuati solo attraverso forme innovative di conservazione, ricerca, valorizzazione ma anche – e soprattutto – sensibilizzazione. A ciò si aggiunge il fatto che la scelta di consentire una fruizione dei patrimoni antropologici non è un’azione di poco conto e priva di rischi, in quanto la visione e percezione della componente scheletrica dei corpi dei nostri predecessori spesso rappresenta per il visitatore un momento intimo e simbolico, estremamente diversificato a seconda del proprio essere sociale, culturale e religioso, e può addirittura portare ad un’esperienza catartica.
Archivi biologici. Corpi di ieri e comunità di oggi per una ri-costruzione identitaria della memoria
Angela SciattiCo-first
2022-01-01
Abstract
I resti umani delle popolazioni passate conservano nella loro matericità la storia biologica e sociale degli individui a cui sono appartenuti e costituiscono delle vere e proprie osteobiografie uniche ed irripetibili funzionali alla ricostruzione dell’evoluzione della nostra specie nelle sue svariate componenti, da quelle prettamente morfologiche e biomolecolari a quelle socio-culturali. Per decenni i contesti funerari sono stati oggetto di ricerche sistematiche da parte dei differenti professionisti del settore archeologico e antropologico, andando molto spesso a scardinare la componente biologica da quella materiale, rendendo in tal modo il potenziale informativo di tali depositi non pienamente espresso e molte volte relegato alla sola comunità scientifica. Sebbene negli ultimi anni le indagini archeologiche disciplinino l’acquisizione di tali patrimoni biologici per le età ed epoche antiche, la genesi delle collezioni antropologiche è da individuare già alla metà del XIX secolo nel fenomeno antiquario del collezionismo a matrice coloniale o etnologica, oltre che nell’acquisizione accademica di ambito medico-legale, con il conseguente innescarsi – soprattutto negli ultimi decenni – di problematiche etiche non di poco conto. Lo stesso Codice Etico dell’ICOM (art. 2.5) segnala infatti la necessità di un’attenta e consapevole fruizione di tali “materiali sensibili”, ricordando che essi «devono essere acquisiti solo se possono essere collocati in un luogo sicuro e trattati con rispetto. Ciò deve avvenire secondo gli standard professionali e con le convinzioni e gli interessi, se conosciuti, dei membri delle comunità, dei gruppi etnici o religiosi da cui provengono». Emerge pertanto che l’approccio ai resti umani richiede l’adozione di nuove pratiche di gestione da mettere in atto a partire dal momento delle fasi di individuazione, sino a quelle di archiviazione, ricerca e fruizione, modulate sui diversi pubblici e sui differenti contesti socio-culturali in cui si opera. Se consideriamo che «una comunità di patrimonio […] desidera, nell’ambito dell’azione pubblica, sostenere e trasmettere [il patrimonio culturale] alle generazioni future» (art. 2b, Convenzione di Faro 2005), è chiaro che questi principi applicati ai beni antropologici possono essere attuati solo attraverso forme innovative di conservazione, ricerca, valorizzazione ma anche – e soprattutto – sensibilizzazione. A ciò si aggiunge il fatto che la scelta di consentire una fruizione dei patrimoni antropologici non è un’azione di poco conto e priva di rischi, in quanto la visione e percezione della componente scheletrica dei corpi dei nostri predecessori spesso rappresenta per il visitatore un momento intimo e simbolico, estremamente diversificato a seconda del proprio essere sociale, culturale e religioso, e può addirittura portare ad un’esperienza catartica.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.