“Ki-may. È la mia nuova parola, il mio segreto. Ki. Maaay. Lascio pendere la mascella sulla seconda sillaba, come un personaggio dei cartoni animati con il mento a registratore di cassa. Ki-maaay. Mi chiama nei momenti più inattesi. (…) Io parlo inglese. Parlo swahili. Ki-may vuol dire tutte le lingue che non so parlare e che sento ogni giorno a Nakuru (…). Ce ne sono così tante. Mi vengono le vertigini. Ki-may è la fisarmonica, il violino, la cornamusa, la tromba. Tutti quei suoni spugnosi”. Nel 2024 l’editore 66THAND2ND ristampa Un giorno scriverò di questo posto, già uscito per gli stessi tipi nel 2013, e rende così omaggio a Binyavanga Wainaina (1971-2019), autore la cui fama non accenna a stemperarsi, sia per la critica sia tra i lettori. Il libro è una travolgente autobiografia che si apre alla scrittura saggistica e al diario di viaggio, la storia di un bambino un po’ sperduto nel caos del mondo, uno Stephen Dedalus kenyota che cresce innamorandosi delle parole e dei suoni, sguazzando nelle sinestesie e nelle onomatopee del quotidiano fino a diventare lettore vorace prima e scrittore febbrile poi: “Tutto il mondo di un romanzo ti si dipana dentro la testa, legato a doppio filo con gli occhi che bruciano, la fitta nel petto, la pancia che galoppa. È tutto mio, privato al cento percento. Quando i protagonisti si sfiorano e si baciano, il bacio appartiene a me (…). Se è un bacio ben scritto, verrà conservato in un piccolo punto raccolto dietro l’osso duro che sta sotto i miei capezzoli.” Il suo amore per le lingue lo porta a coniare il neologismo kimay per gli idiomi che non conosce. Nei suoi viaggi in Kenya e per il continente ne assorbe (l’immagine della spugna ben si attaglia anche a lui) le infinite sfaccettature culturali, mescolando generi alti e pop con una scioltezza che ha reso i suoi scritti un punto di riferimento imprescindibile, oggi, per chiunque si accosti alla ricchezza proteiforme delle culture e delle letterature del continente africano: “la gente di città abita diversi mondi in molte lingue. Ci sono persone che ne parlano sei o sette. Molto spesso si sente raccontare di qualcuno che viveva un’altra vita in un’altra lingua, e alla sua morte sono uscite dal nulla famiglie intere.” Assieme alla seconda edizione di Un giorno scriverò di questo posto, lo stesso editore fa uscire Come scrivere dell’Africa, corposa raccolta dei pezzi brevi che Wainaina ha prodotto per riviste (spesso online), quotidiani e miscellanee in volumi, che in alcuni casi sono poi confluiti in Un giorno. A questi, il curatore Achal Prabhala aggiunge introvabili contributi dalla sua corrispondenza privata con l’autore. Il volume non poteva non includere anche i due scritti che hanno fatto esplodere la popolarità di Wainaina. Il primo è “Scoprire casa”, racconto autobiografico sul suo ritorno a Nairobi dopo anni trascorsi in Sudafrica, che gli è valso il conferimento del prestigioso Caine Prize 2002 per la letteratura africana: con i soldi del premio, Wainaina ha fondato la sua rivista Kwani? (Embé?), la quale a sua volta ha pubblicato nuovi autori emergenti e successivamente premiati, come Yvonne Adhiambo Onwuor. Il secondo contributo, posto in chiusura di volume, è “Come scrivere dell’Africa” (2005, già tradotto nel 2021 per l’antologia Africana), citatissimo decalogo che ha eletto definitivamente Wainaina a emblema della recente narrativa africana anti-stereotipi: “Argomenti tabù: ordinari quadretti domestici, amore tra africani (a meno che non includa la morte), riferimenti a scrittori o intellettuali africani, a bimbi in età scolastica che non sono malati di framboesia, ebola, o non abbiano subito una mutilazione genitale femminile”. Non a caso lo studioso post-colonialista Shaul Bassi prende Wainaina come punto di riferimento costante nel suo Turbo Road (cfr. “L’Indice” 2023, n. 11), diario di un lungo soggiorno kenyota dove un’esperienza di adozione internazionale diventa filo conduttore per un viaggio nella letteratura keniota contemporanea pieno di incontri e interviste – in altre parole, un mix di generi che ha il fascino dell’oggetto misterioso proprio come Un giorno scriverò di questo posto. Schiacciata dagli opposti luoghi comuni fondati su esotismo e crudeltà, la nostra visione dell’Africa, scrive Bassi, non può che beneficiare dello sguardo diretto e smaliziato di Wainaina: “L’esilarante repertorio di tenaci luoghi comuni ci ricorda nel modo più efficace che per conoscere qualunque parte dell’Africa (…) c’è prima un lavoro di disconoscenza”. Da qui, il libro di Bassi ritorna costantemente sulla satira beffarda di Wainaina, come nel capitolo sul tribalismo in Kenya, o sull’influenza delle sue iniziative editoriali per autori ed autrici pubblicati successivamente: sfogliando le pagine della rivista Kwani?, “si coglie a colpo d’occhio il tripudio e l’eccitazione della sperimentazione. Racconti minimalisti, fotografie, vignette, collage, versi, blog e e-mail, caratteri tipografici diversi”, in una “instancabile esplorazione del presente”. Come scrivere dell’Africa racchiude le infinite sfaccettature di Wainaina, e qui si ha solo l’imbarazzo della scelta. Ad esempio c’è il caos urbano di Nairobi con i suoi mezzi pubblici, i matatu: “si infilano e si sfilano da ogni pertugio tra le macchine, sfrecciano ad angolazioni inverosimili, (…) sembrano una forma di jazz: ogni tragitto è la ricerca di una soluzione spontanea e sofisticata per arrivare a fine corsa nel minor tempo possibile sulla sempre più decrepita rete stradale di Nairobi, risalente ai tempi coloniali e progettata per una classe media che si sposta a bordo di piccoli veicoli. Il trasporto pubblico deve trovare il modo di arrangiarsi. Oh, ma ci riesce”. Continuano ad abbondare le osservazioni sulle lingue africane (cui l’avaro glossario in fondo al volume rende davvero poca giustizia, purtroppo), come lo sviluppo dello sheng urbano, misto di swahili e inglese; o la creatività dello swahili costiero: “per loro conversare è la forma più eccelsa di letteratura. Non sono permessi i cliché: le immagini devono essere originali e interessanti. Mai ripetere una similitudine. (…) L’ironia di Mombasa è calcolata per ridurti in poltiglia.” Gli appassionati di cucina, poi, troveranno pagine di ricette descritte nel dettaglio. Tutte queste minute osservazioni sul quotidiano si ampliano spesso ad includere questioni più generali: di fronte all’ortofrutta di un supermercato sudafricano, “mi sono reso conto di quanto sia fascista il cibo in Sudafrica. La varietà e il gusto sono stati sacrificati sull’altare della militarizzazione degli scaffali”. “Varietà” è forse la parola-chiave, per definire il mosaico dei pezzi di questo volume: come scrive Prabhala, “figlio di una madre che si sentiva tanto ugandese quanto ruandese, e da keniota maturato in Sudafrica, Binyavanga capiva d’istinto di appartenere a più paesi di quanti il suo passaporto facesse intendere. Arrivò presto al panafricanismo, in modo naturale, e gli rimase fedele”. Col suo tipico miscuglio di ironia e argomentazione fattuale, vengono analizzati fenomeni come la xenofobia in Sudafrica verso gli immigrati, il tribalismo (“paranoia etnica”) keniota che la politica è sempre pronta a sfruttare, le comunità di cristiani rinati che, a dispetto di ogni riserva ideologica, sono tra i pochi esempi di società concretamente funzionante nell’Africa contemporanea. Soprattutto, gli strali satirici sono spesso diretti contro chi continua a ridurre l’Africa a stereotipo (in primis, Ryszard Kapuściński) e contro il paternalismo degli aiuti occidentali: “è più facile per una Rossella O’Hara trentenne – o uno dei Boomtown Rats – decidere che cosa sono i Masai per il mondo intero che per un Masai munito di dottorato che parla masai. Perché questa è la Forza dell’Amore”. Molto meno satirico è uno dei pezzi più memorabili del volume, dove racconta la sua partecipazione a un gruppo di ricerca nel Sudan del Sud sulla malattia del sonno, ri-scoppiata recentemente come conseguenza di guerra, povertà e sfollati. Una scoperta meno felice di questa raccolta, invece, riguarda i racconti di fiction: storie non completamente convincenti, dove la credibilità e l’umanità dei personaggi viene continuamente interrotta dalle idee che l’autore vuole comunicare. Questo genere davvero non era nelle sue corde. Wainaina però dimostra di riconoscere la stoffa del narratore. In Un giorno scriverò citava il ghanese Kojo Laing (1946-2017), il cui realismo magico carnivalesco (non ancora tradotto in Italia) ben si rispecchia nello sguardo bulimico di Wainaina, e nel suo lirismo (“se il cristallo fosse acqua solidificata, la voce di mamma sarebbe l’ultimo spruzzo a rapprendersi”). In Come scrivere dell’Africa, il modello è lo zimbabwese Dambudzo Marechera (1952-1987), la cui novella La casa della fame è stato libro del mese per “L’Indice” (2019, n. 7/8) ma il cui romanzo più importante, Black Sunlight, deve ancora essere tradotto: autore maledetto e tormentato, visionario e spietatamente iconoclasta, non avrebbe mai saputo ricostruire un ambiente con l’inebriante ricchezza di Wainaina, ma metteva al muro i suoi personaggi con una cattiveria priva di filtri. Wainana è andato incontro, come questo enfant terrible, a una fine tragica e precoce. Allo stesso tempo, vedeva il mondo con una insaziabile curiosità intrisa di tenerezza, che gli impediva di avere uno sguardo altrettanto nudo.
Stephen Dedalus kenyota, contro gli stereotipi della narrativa: Tutti i nomi di Wainaina
Deandrea Pietro
2025-01-01
Abstract
“Ki-may. È la mia nuova parola, il mio segreto. Ki. Maaay. Lascio pendere la mascella sulla seconda sillaba, come un personaggio dei cartoni animati con il mento a registratore di cassa. Ki-maaay. Mi chiama nei momenti più inattesi. (…) Io parlo inglese. Parlo swahili. Ki-may vuol dire tutte le lingue che non so parlare e che sento ogni giorno a Nakuru (…). Ce ne sono così tante. Mi vengono le vertigini. Ki-may è la fisarmonica, il violino, la cornamusa, la tromba. Tutti quei suoni spugnosi”. Nel 2024 l’editore 66THAND2ND ristampa Un giorno scriverò di questo posto, già uscito per gli stessi tipi nel 2013, e rende così omaggio a Binyavanga Wainaina (1971-2019), autore la cui fama non accenna a stemperarsi, sia per la critica sia tra i lettori. Il libro è una travolgente autobiografia che si apre alla scrittura saggistica e al diario di viaggio, la storia di un bambino un po’ sperduto nel caos del mondo, uno Stephen Dedalus kenyota che cresce innamorandosi delle parole e dei suoni, sguazzando nelle sinestesie e nelle onomatopee del quotidiano fino a diventare lettore vorace prima e scrittore febbrile poi: “Tutto il mondo di un romanzo ti si dipana dentro la testa, legato a doppio filo con gli occhi che bruciano, la fitta nel petto, la pancia che galoppa. È tutto mio, privato al cento percento. Quando i protagonisti si sfiorano e si baciano, il bacio appartiene a me (…). Se è un bacio ben scritto, verrà conservato in un piccolo punto raccolto dietro l’osso duro che sta sotto i miei capezzoli.” Il suo amore per le lingue lo porta a coniare il neologismo kimay per gli idiomi che non conosce. Nei suoi viaggi in Kenya e per il continente ne assorbe (l’immagine della spugna ben si attaglia anche a lui) le infinite sfaccettature culturali, mescolando generi alti e pop con una scioltezza che ha reso i suoi scritti un punto di riferimento imprescindibile, oggi, per chiunque si accosti alla ricchezza proteiforme delle culture e delle letterature del continente africano: “la gente di città abita diversi mondi in molte lingue. Ci sono persone che ne parlano sei o sette. Molto spesso si sente raccontare di qualcuno che viveva un’altra vita in un’altra lingua, e alla sua morte sono uscite dal nulla famiglie intere.” Assieme alla seconda edizione di Un giorno scriverò di questo posto, lo stesso editore fa uscire Come scrivere dell’Africa, corposa raccolta dei pezzi brevi che Wainaina ha prodotto per riviste (spesso online), quotidiani e miscellanee in volumi, che in alcuni casi sono poi confluiti in Un giorno. A questi, il curatore Achal Prabhala aggiunge introvabili contributi dalla sua corrispondenza privata con l’autore. Il volume non poteva non includere anche i due scritti che hanno fatto esplodere la popolarità di Wainaina. Il primo è “Scoprire casa”, racconto autobiografico sul suo ritorno a Nairobi dopo anni trascorsi in Sudafrica, che gli è valso il conferimento del prestigioso Caine Prize 2002 per la letteratura africana: con i soldi del premio, Wainaina ha fondato la sua rivista Kwani? (Embé?), la quale a sua volta ha pubblicato nuovi autori emergenti e successivamente premiati, come Yvonne Adhiambo Onwuor. Il secondo contributo, posto in chiusura di volume, è “Come scrivere dell’Africa” (2005, già tradotto nel 2021 per l’antologia Africana), citatissimo decalogo che ha eletto definitivamente Wainaina a emblema della recente narrativa africana anti-stereotipi: “Argomenti tabù: ordinari quadretti domestici, amore tra africani (a meno che non includa la morte), riferimenti a scrittori o intellettuali africani, a bimbi in età scolastica che non sono malati di framboesia, ebola, o non abbiano subito una mutilazione genitale femminile”. Non a caso lo studioso post-colonialista Shaul Bassi prende Wainaina come punto di riferimento costante nel suo Turbo Road (cfr. “L’Indice” 2023, n. 11), diario di un lungo soggiorno kenyota dove un’esperienza di adozione internazionale diventa filo conduttore per un viaggio nella letteratura keniota contemporanea pieno di incontri e interviste – in altre parole, un mix di generi che ha il fascino dell’oggetto misterioso proprio come Un giorno scriverò di questo posto. Schiacciata dagli opposti luoghi comuni fondati su esotismo e crudeltà, la nostra visione dell’Africa, scrive Bassi, non può che beneficiare dello sguardo diretto e smaliziato di Wainaina: “L’esilarante repertorio di tenaci luoghi comuni ci ricorda nel modo più efficace che per conoscere qualunque parte dell’Africa (…) c’è prima un lavoro di disconoscenza”. Da qui, il libro di Bassi ritorna costantemente sulla satira beffarda di Wainaina, come nel capitolo sul tribalismo in Kenya, o sull’influenza delle sue iniziative editoriali per autori ed autrici pubblicati successivamente: sfogliando le pagine della rivista Kwani?, “si coglie a colpo d’occhio il tripudio e l’eccitazione della sperimentazione. Racconti minimalisti, fotografie, vignette, collage, versi, blog e e-mail, caratteri tipografici diversi”, in una “instancabile esplorazione del presente”. Come scrivere dell’Africa racchiude le infinite sfaccettature di Wainaina, e qui si ha solo l’imbarazzo della scelta. Ad esempio c’è il caos urbano di Nairobi con i suoi mezzi pubblici, i matatu: “si infilano e si sfilano da ogni pertugio tra le macchine, sfrecciano ad angolazioni inverosimili, (…) sembrano una forma di jazz: ogni tragitto è la ricerca di una soluzione spontanea e sofisticata per arrivare a fine corsa nel minor tempo possibile sulla sempre più decrepita rete stradale di Nairobi, risalente ai tempi coloniali e progettata per una classe media che si sposta a bordo di piccoli veicoli. Il trasporto pubblico deve trovare il modo di arrangiarsi. Oh, ma ci riesce”. Continuano ad abbondare le osservazioni sulle lingue africane (cui l’avaro glossario in fondo al volume rende davvero poca giustizia, purtroppo), come lo sviluppo dello sheng urbano, misto di swahili e inglese; o la creatività dello swahili costiero: “per loro conversare è la forma più eccelsa di letteratura. Non sono permessi i cliché: le immagini devono essere originali e interessanti. Mai ripetere una similitudine. (…) L’ironia di Mombasa è calcolata per ridurti in poltiglia.” Gli appassionati di cucina, poi, troveranno pagine di ricette descritte nel dettaglio. Tutte queste minute osservazioni sul quotidiano si ampliano spesso ad includere questioni più generali: di fronte all’ortofrutta di un supermercato sudafricano, “mi sono reso conto di quanto sia fascista il cibo in Sudafrica. La varietà e il gusto sono stati sacrificati sull’altare della militarizzazione degli scaffali”. “Varietà” è forse la parola-chiave, per definire il mosaico dei pezzi di questo volume: come scrive Prabhala, “figlio di una madre che si sentiva tanto ugandese quanto ruandese, e da keniota maturato in Sudafrica, Binyavanga capiva d’istinto di appartenere a più paesi di quanti il suo passaporto facesse intendere. Arrivò presto al panafricanismo, in modo naturale, e gli rimase fedele”. Col suo tipico miscuglio di ironia e argomentazione fattuale, vengono analizzati fenomeni come la xenofobia in Sudafrica verso gli immigrati, il tribalismo (“paranoia etnica”) keniota che la politica è sempre pronta a sfruttare, le comunità di cristiani rinati che, a dispetto di ogni riserva ideologica, sono tra i pochi esempi di società concretamente funzionante nell’Africa contemporanea. Soprattutto, gli strali satirici sono spesso diretti contro chi continua a ridurre l’Africa a stereotipo (in primis, Ryszard Kapuściński) e contro il paternalismo degli aiuti occidentali: “è più facile per una Rossella O’Hara trentenne – o uno dei Boomtown Rats – decidere che cosa sono i Masai per il mondo intero che per un Masai munito di dottorato che parla masai. Perché questa è la Forza dell’Amore”. Molto meno satirico è uno dei pezzi più memorabili del volume, dove racconta la sua partecipazione a un gruppo di ricerca nel Sudan del Sud sulla malattia del sonno, ri-scoppiata recentemente come conseguenza di guerra, povertà e sfollati. Una scoperta meno felice di questa raccolta, invece, riguarda i racconti di fiction: storie non completamente convincenti, dove la credibilità e l’umanità dei personaggi viene continuamente interrotta dalle idee che l’autore vuole comunicare. Questo genere davvero non era nelle sue corde. Wainaina però dimostra di riconoscere la stoffa del narratore. In Un giorno scriverò citava il ghanese Kojo Laing (1946-2017), il cui realismo magico carnivalesco (non ancora tradotto in Italia) ben si rispecchia nello sguardo bulimico di Wainaina, e nel suo lirismo (“se il cristallo fosse acqua solidificata, la voce di mamma sarebbe l’ultimo spruzzo a rapprendersi”). In Come scrivere dell’Africa, il modello è lo zimbabwese Dambudzo Marechera (1952-1987), la cui novella La casa della fame è stato libro del mese per “L’Indice” (2019, n. 7/8) ma il cui romanzo più importante, Black Sunlight, deve ancora essere tradotto: autore maledetto e tormentato, visionario e spietatamente iconoclasta, non avrebbe mai saputo ricostruire un ambiente con l’inebriante ricchezza di Wainaina, ma metteva al muro i suoi personaggi con una cattiveria priva di filtri. Wainana è andato incontro, come questo enfant terrible, a una fine tragica e precoce. Allo stesso tempo, vedeva il mondo con una insaziabile curiosità intrisa di tenerezza, che gli impediva di avere uno sguardo altrettanto nudo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.