Negli ultimi anni, l'intelligenza artificiale generativa è stata applicata in vari campi dell'attività umana grazie ai recenti sviluppi delle reti neurali: dai social media alla guida assistita, dalla prognosi medica al riconoscimento facciale, dallo sviluppo dei chatbot al mercato del lavoro. La tesi indaga le recenti applicazioni di questi sistemi algoritmici nel campo della performance digitale, considerando le nuove possibilità espressive basate sulla capacità dei software di produrre autonomamente contenuti. La mappatura considera la prospettiva autoriale nelle performance e nelle installazioni in cui la macchina ha una rilevanza drammaturgica data dall’elaborazione generativa dei dati e indaga tanto il processo creativo condiviso quanto il dialogo sulla scena tra AI, performer e/o l’audience. Il framework teorico adotta concetti informatici al campo artistico come ipotesi metodologica, supponendo che questo approccio possa guidare l’analisi e aiutare a comprendere le reciproche tangenze tra ambienti di programmazione e contesti scenici. Ogni capitolo indica una “box”, come contenitore narrativo che si riflette – a eccezione del primo capitolo – in un concetto informatico. Il primo, Historical Box, è dedicato ai processi storici nei quali assistiamo prima all’emersione dell’AI e poi alla messa in discussione dell’analogia tra la cognizione umana e quella delle macchine secondo una prospettiva antropocentrica. La prima parte è riferita allo sviluppo sociotecnico e artistico dell’AI dalla seconda metà del Novecento, mentre la seconda parte descrive le prospettive attuali, esponendo i modelli teorici di riferimento e integrando alcuni orientamenti performativi contemporanei. Il secondo capitolo, Black Box, è dedicato all’approfondimento delle relazioni tra ambienti di programmazione e messa in scena da un punto di vista autoriale. Il concetto di “black box” caratterizza il capitolo come metafora dell’inconoscibilità dell’elaborazione della macchina, in ciò implicando la necessaria mediazione autoriale nel rendere percepibili gli output. Il terzo capitolo, White Box, analizza quelle opere che prevedono una maggiore comprensibilità dei sistemi che governano gli algoritmi. Gli autori dimostrano, in tal senso, una più generale apertura a dinamiche sociotecniche e di comunicazione con la macchina, cercando di rendere il pubblico sensibile alle sue azioni. Il quarto capitolo, Gray Box, offre infine una comparazione dei due approcci. Mette in risalto le sovrapposizioni e le sfumature tra i due poli definiti nel secondo e nel terzo capitolo nell’approfondimento di alcune opere citate nel corso del testo. I concetti su cui sono basati i capitoli sono simili a quelli usati per descrivere i contesti espositivi e performativi: la “black box”, che indica anche lo spazio scenico del teatro; il “white cube”, che si riferisce all’ambiente neutrale dei musei; la “gray zone”, che descrive la confluenza delle due. Il titolo del testo, The Box in the Box, oltre all’evidente riferimento al jack-in-the-box e al meccanismo di incognita e sorpresa che il gioco sottende, rimanda proprio a questo cortocircuito terminologico, laddove la rappresentazione si configura come un contenitore di elementi che a sua volta integra gli ambienti informatici come contenitori di informazioni digitali. Questa relazione è tutt’altro che lineare e presuppone che, soprattutto dove è utilizzata l’AI, i confini di questi contenitori siano fluidi poiché l’ambiente scenico viene plasmato in funzione degli ambienti di programmazione e viceversa. In altri termini, non sempre è chiaro quale dei due contenitori contenga l’altro. La riflessione verrà articolata proprio su questa ibridazione poiché alla base delle relazioni tra ambienti informatici, processo creativo e drammaturgia delle opere
The Box in the Box: Processi Creativi, Estetici e Relazionali tra Performance e Intelligenza Artificiale(2025 Nov 17).
The Box in the Box: Processi Creativi, Estetici e Relazionali tra Performance e Intelligenza Artificiale
BEFERA, LUCA
2025-11-17
Abstract
Negli ultimi anni, l'intelligenza artificiale generativa è stata applicata in vari campi dell'attività umana grazie ai recenti sviluppi delle reti neurali: dai social media alla guida assistita, dalla prognosi medica al riconoscimento facciale, dallo sviluppo dei chatbot al mercato del lavoro. La tesi indaga le recenti applicazioni di questi sistemi algoritmici nel campo della performance digitale, considerando le nuove possibilità espressive basate sulla capacità dei software di produrre autonomamente contenuti. La mappatura considera la prospettiva autoriale nelle performance e nelle installazioni in cui la macchina ha una rilevanza drammaturgica data dall’elaborazione generativa dei dati e indaga tanto il processo creativo condiviso quanto il dialogo sulla scena tra AI, performer e/o l’audience. Il framework teorico adotta concetti informatici al campo artistico come ipotesi metodologica, supponendo che questo approccio possa guidare l’analisi e aiutare a comprendere le reciproche tangenze tra ambienti di programmazione e contesti scenici. Ogni capitolo indica una “box”, come contenitore narrativo che si riflette – a eccezione del primo capitolo – in un concetto informatico. Il primo, Historical Box, è dedicato ai processi storici nei quali assistiamo prima all’emersione dell’AI e poi alla messa in discussione dell’analogia tra la cognizione umana e quella delle macchine secondo una prospettiva antropocentrica. La prima parte è riferita allo sviluppo sociotecnico e artistico dell’AI dalla seconda metà del Novecento, mentre la seconda parte descrive le prospettive attuali, esponendo i modelli teorici di riferimento e integrando alcuni orientamenti performativi contemporanei. Il secondo capitolo, Black Box, è dedicato all’approfondimento delle relazioni tra ambienti di programmazione e messa in scena da un punto di vista autoriale. Il concetto di “black box” caratterizza il capitolo come metafora dell’inconoscibilità dell’elaborazione della macchina, in ciò implicando la necessaria mediazione autoriale nel rendere percepibili gli output. Il terzo capitolo, White Box, analizza quelle opere che prevedono una maggiore comprensibilità dei sistemi che governano gli algoritmi. Gli autori dimostrano, in tal senso, una più generale apertura a dinamiche sociotecniche e di comunicazione con la macchina, cercando di rendere il pubblico sensibile alle sue azioni. Il quarto capitolo, Gray Box, offre infine una comparazione dei due approcci. Mette in risalto le sovrapposizioni e le sfumature tra i due poli definiti nel secondo e nel terzo capitolo nell’approfondimento di alcune opere citate nel corso del testo. I concetti su cui sono basati i capitoli sono simili a quelli usati per descrivere i contesti espositivi e performativi: la “black box”, che indica anche lo spazio scenico del teatro; il “white cube”, che si riferisce all’ambiente neutrale dei musei; la “gray zone”, che descrive la confluenza delle due. Il titolo del testo, The Box in the Box, oltre all’evidente riferimento al jack-in-the-box e al meccanismo di incognita e sorpresa che il gioco sottende, rimanda proprio a questo cortocircuito terminologico, laddove la rappresentazione si configura come un contenitore di elementi che a sua volta integra gli ambienti informatici come contenitori di informazioni digitali. Questa relazione è tutt’altro che lineare e presuppone che, soprattutto dove è utilizzata l’AI, i confini di questi contenitori siano fluidi poiché l’ambiente scenico viene plasmato in funzione degli ambienti di programmazione e viceversa. In altri termini, non sempre è chiaro quale dei due contenitori contenga l’altro. La riflessione verrà articolata proprio su questa ibridazione poiché alla base delle relazioni tra ambienti informatici, processo creativo e drammaturgia delle opere| File | Dimensione | Formato | |
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