Negli ultimi anni, la maggior parte dei Paesi membri dell’Unione europea ha iniziato a sperimentare azioni positive sia finalizzate al miglioramento della condizione della donna nel settore del lavoro, pubblico e privato, sia con l’intento di incrementare la presenza femminile nelle assemblee elettive. A distanza di mezzo secolo dalla fine del regime di segregazione razziale negli Stati Uniti d’America, altri ordinamenti segnati da esperienze di apartheid, come quello sudafricano, hanno provato a inseguire l’obiettivo della pace sociale promuovendo e incentivando, mediante azioni positive, la partecipazione attiva dei cittadini di colore alla vita economica e sociale. Nonostante l’istituto sia stato ampiamente sperimentato, rimane controversa e tutta da esplorare la questione del suo fondamento costituzionale e, conseguentemente, della sua ammissibilità. Il lavoro prova a dimostrare come non vi sia ragione di negare che le azioni positive debbano essere intese come “discriminazioni alla rovescia”, dal momento che vanno inevitabilmente a determinare una compressione del diritto alla parità di trattamento per coloro che non appartengono ai gruppi che ne sono destinatari. Come già evidenziato da Bobbio, la previsione di trattamenti preferenziali in favore di alcune categorie svantaggiate produce senz’altro una disuguaglianza, che però diventa strumento di eguaglianza: la nuova eguaglianza sarebbe il risultato del pareggiamento di due diseguaglianze. Tale formula merita di essere sperimentata e verificata nella sua attuabilità alla luce degli assetti costituzionali liberaldemocratici: questi ultimi consentono l’utilizzo di tali misure? Il dibattito sul diritto diseguale, come sottolinea Rosenfeld, si presenta come «an intramural debate among partisans of equality»: il principio di eguaglianza può, infatti, essere letto in un’ottica individualista e liberale, che lo traduce in mero principio antidiscriminatorio, oppure se ne può accogliere una particolare interpretazione indicata come eguaglianza sostanziale. Come si argomenta nelle prime pagine dello scritto, le azioni positive non paiono riconducibili al principio di eguaglianza formale e quindi alla regola che impone trattamenti diversi per situazioni diverse, bensì trovano il loro fondamento in quella particolare accezione del principio di parità, fondante le democrazie sociali, che riesce ad accogliere il loro porsi come misure che spostano l’attenzione dal singolo al gruppo, in quanto volte a tutelare interessi a realizzazione individuale ma a giustificazione collettiva. L’eguaglianza sostanziale, intesa come obiettivo che implica uno stato che interviene per rimuovere le diseguaglianze economiche e sociali di fatto e che consente di cogliere gli interessi del gruppo inteso come entità con un’esistenza distinta da quella dei suoi singoli appartenenti, caratterizza il costituzionalismo europeo. Talvolta essa è espressamente costituzionalizzata, talaltra è implicita nella codificazione delle libertà positive o, comunque, nelle clausole di adesione alla forma di stato sociale inserite, ad esempio, nella Legge Fondamentale di Bonn. Essa assume un rilievo ancora maggiore in alcuni ordinamenti di più recente democrazia come quello sudafricano, o nelle costituzioni latino-americane che si caratterizzano per lo spazio che dedicano alla c.d. parte sociale. Ma, proprio negli Stati Uniti d’America, in cui si rinvengono le prime azioni positive, non pare che si possa attribuire alla equal protection of the laws di cui al XIV Emendamento della Costituzione altro significato che quello dell’eguaglianza formale. Dall’analisi della giurisprudenza e della dottrina statunitensi, sembra emergere come la mancata costituzionalizzazione di certi principi lontani dall’ideologia individualistica di stampo ottocentesco costituisca un serio ostacolo all’accettazione delle azioni positive: le azioni positive si sono così sviluppate negli Stati Uniti senza una solida copertura costituzionale che, ad oggi, non è ancora stata rinvenuta dalla Corte Suprema nel principio di eguaglianza. Il negative constitutionalism nordamericano, pertanto, può essere ritenuto il principali responsabile delle persistenti difficoltà di comprensione e, conseguentemente, di accettazione delle politiche di azioni positive come strumenti di trasformazione sociale particolarmente efficaci: le letture in chiave sostanziale della equal protection clause sono, infatti, rimaste interpretazioni minoritarie e, comunque, non sono mai riuscite a imporsi a livello giurisprudenziale.
Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo
CAIELLI, Mia
2008-01-01
Abstract
Negli ultimi anni, la maggior parte dei Paesi membri dell’Unione europea ha iniziato a sperimentare azioni positive sia finalizzate al miglioramento della condizione della donna nel settore del lavoro, pubblico e privato, sia con l’intento di incrementare la presenza femminile nelle assemblee elettive. A distanza di mezzo secolo dalla fine del regime di segregazione razziale negli Stati Uniti d’America, altri ordinamenti segnati da esperienze di apartheid, come quello sudafricano, hanno provato a inseguire l’obiettivo della pace sociale promuovendo e incentivando, mediante azioni positive, la partecipazione attiva dei cittadini di colore alla vita economica e sociale. Nonostante l’istituto sia stato ampiamente sperimentato, rimane controversa e tutta da esplorare la questione del suo fondamento costituzionale e, conseguentemente, della sua ammissibilità. Il lavoro prova a dimostrare come non vi sia ragione di negare che le azioni positive debbano essere intese come “discriminazioni alla rovescia”, dal momento che vanno inevitabilmente a determinare una compressione del diritto alla parità di trattamento per coloro che non appartengono ai gruppi che ne sono destinatari. Come già evidenziato da Bobbio, la previsione di trattamenti preferenziali in favore di alcune categorie svantaggiate produce senz’altro una disuguaglianza, che però diventa strumento di eguaglianza: la nuova eguaglianza sarebbe il risultato del pareggiamento di due diseguaglianze. Tale formula merita di essere sperimentata e verificata nella sua attuabilità alla luce degli assetti costituzionali liberaldemocratici: questi ultimi consentono l’utilizzo di tali misure? Il dibattito sul diritto diseguale, come sottolinea Rosenfeld, si presenta come «an intramural debate among partisans of equality»: il principio di eguaglianza può, infatti, essere letto in un’ottica individualista e liberale, che lo traduce in mero principio antidiscriminatorio, oppure se ne può accogliere una particolare interpretazione indicata come eguaglianza sostanziale. Come si argomenta nelle prime pagine dello scritto, le azioni positive non paiono riconducibili al principio di eguaglianza formale e quindi alla regola che impone trattamenti diversi per situazioni diverse, bensì trovano il loro fondamento in quella particolare accezione del principio di parità, fondante le democrazie sociali, che riesce ad accogliere il loro porsi come misure che spostano l’attenzione dal singolo al gruppo, in quanto volte a tutelare interessi a realizzazione individuale ma a giustificazione collettiva. L’eguaglianza sostanziale, intesa come obiettivo che implica uno stato che interviene per rimuovere le diseguaglianze economiche e sociali di fatto e che consente di cogliere gli interessi del gruppo inteso come entità con un’esistenza distinta da quella dei suoi singoli appartenenti, caratterizza il costituzionalismo europeo. Talvolta essa è espressamente costituzionalizzata, talaltra è implicita nella codificazione delle libertà positive o, comunque, nelle clausole di adesione alla forma di stato sociale inserite, ad esempio, nella Legge Fondamentale di Bonn. Essa assume un rilievo ancora maggiore in alcuni ordinamenti di più recente democrazia come quello sudafricano, o nelle costituzioni latino-americane che si caratterizzano per lo spazio che dedicano alla c.d. parte sociale. Ma, proprio negli Stati Uniti d’America, in cui si rinvengono le prime azioni positive, non pare che si possa attribuire alla equal protection of the laws di cui al XIV Emendamento della Costituzione altro significato che quello dell’eguaglianza formale. Dall’analisi della giurisprudenza e della dottrina statunitensi, sembra emergere come la mancata costituzionalizzazione di certi principi lontani dall’ideologia individualistica di stampo ottocentesco costituisca un serio ostacolo all’accettazione delle azioni positive: le azioni positive si sono così sviluppate negli Stati Uniti senza una solida copertura costituzionale che, ad oggi, non è ancora stata rinvenuta dalla Corte Suprema nel principio di eguaglianza. Il negative constitutionalism nordamericano, pertanto, può essere ritenuto il principali responsabile delle persistenti difficoltà di comprensione e, conseguentemente, di accettazione delle politiche di azioni positive come strumenti di trasformazione sociale particolarmente efficaci: le letture in chiave sostanziale della equal protection clause sono, infatti, rimaste interpretazioni minoritarie e, comunque, non sono mai riuscite a imporsi a livello giurisprudenziale.File | Dimensione | Formato | |
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