Il titolo che abbiamo voluto dare a questa mostra (i tempi stanno cambiando) sintetizza in una frase i grandi cambiamenti sociali e tecnologici, ma anche ambientali e climatici, che caratterizzano, a ritmi sempre più rapidi, la nostra epoca. Lo scopo della mostra, che si evince dal sottotitolo, è invece quello di cercare di fare un po’ di chiarezza sulla questione dei cambiamenti climatici cercando di fornire una rassegna, allo stesso tempo di stile divulgativo ma scientificamente rigorosa, aggiornata allo stato dell’arte della ricerca contemporanea sul clima. Se infatti molti hanno sentito parlare almeno una volta del protocollo di Kyoto e dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climatic Change, cioè comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici), un po’ meno noti sono gli obiettivi del protocollo stesso o i risultati scientifici raggiunti dall’IPCC. Quest’anno, tra l’altro, l’IPCC compie 20 anni: è infatti stato fondato nel 1988 come organismo scientifico consultivo dell’ONU; inoltre, è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Erano gli anni in cui il “problema” climatico più pressante sembrava essere quello del buco dell’ozono, mentre la temperatura media globale aveva ricominciato da una decina d’anni ad aumentare, dopo la pausa del trentennio postbellico. A vent’anni di distanza, ci sono molti più dati osservativi: le carote glaciali antartiche di Vostok e del progetto EPICA, quelle groenlandesi delle campagne GRIP, le carote di sedimenti oceanici, le serie osservative più lunghe sia di concentrazioni di gas serra (come quella di Mauna Loa, ora lunga mezzo secolo), sia di parametri meteorologici (come la serie ultrasecolare di Torino, la cui analisi verrà esposta in anteprima in questa mostra). Inoltre, anche la modellistica numerica, sfruttando la maggiore potenza dei computer e gli sviluppi recenti delle teorie fisiche e chimiche, ha raggiunto un’affidabilità tale da rendere credibili i risultati delle simulazioni svolte. Nel contempo, molti studi sono stati anche svolti sull’influenza del clima nella storia dell’uomo. La storia ci insegna che il clima ha influenzato la vita e l’attività dell’uomo sin dalle prime fasi della sua comparsa, così come, del resto, era successo nei confronti della flora e della fauna prima che l’uomo colonizzasse il pianeta. Alcuni studiosi sostengono infatti che la stessa evoluzione umana dai primati sia stata favorita da variazioni climatiche (effettivamente avvenute durante l’epoca del declino cenozoico) che, modificando l’ecosistema delle foreste pluviali africane, avrebbero forzato dei cambiamenti nelle abitudini e nella dieta dei primi ominidi, nonché le loro migrazioni verso gli altri continenti nell’era Paleolitica. Allo stesso tempo, la densità abitativa in diverse aree del globo è stata, ed è ancora oggi, fortemente correlata alle condizioni climatiche (molte aree desertiche ed artiche sono ancor oggi abitate in modo esiguo, se non disabitate). La maggior parte della popolazione umana vive concentrata in porzioni limitate (ma in continua espansione) di territorio, nelle quali le condizioni climatiche sono più favorevoli per la vita e le attività umane. Inoltre, anche l’efficienza delle attività umane e l’economia stessa sono fortemente influenzate dal clima (si pensi all’agricoltura, alle opere ingegneristiche, all’edilizia, ecc.). Tuttavia, è vero anche il discorso contrario. Le attività umane agricole, industriali e tecnologiche hanno ormai raggiunto un livello tale per cui i loro effetti interessano l’intero globo terrestre, coinvolgendo i sistemi naturali, cioè l’atmosfera, le terre emerse e gli oceani, così come tutte le forme di vita sul pianeta. Questo non avviene soltanto perché la popolazione umana continua a crescere pressoché esponenzialmente (l’attuale tasso di crescita, 1.23% annuo, prevede un raddoppio della popolazione ogni 59 anni circa), ma anche perché le attività umane alterano la composizione stessa dell’atmosfera mediante l’immissione di gas, sia già esistenti in natura (come i biossidi di carbonio ed azoto, il metano, ecc.), sia sintetizzati artificialmente (come ad esempio i clorofluorocarburi, responsabili del buco dell’ozono, e tanti altri). Altri effetti delle attività umane, non meno importanti, provocano la riduzione delle aree forestate, la desertificazione del territorio e la crescita dei livelli di inquinamento, sia in atmosfera che negli oceani. In realtà, l’idea che i cambiamenti climatici potessero essere il risultato di emissioni di gas serra non è nuova, in quanto, nel lontano 1896, il chimico e fisico svedese Svante Arrhenius già teorizzava che l’utilizzo dei combustibili fossili avrebbe potuto comportare un aumento delle concentrazioni atmosferiche di biossido di carbonio e, quindi, alterare il bilancio energetico del sistema Terra-atmosfera-oceano. Tuttavia, la prima dimostrazione inconfutabile dell’aumento di biossido di carbonio in atmosfera fu fatta dall’ingegnere Guy Stewart Callendar nel 1938, mentre Roger Revelle ebbe il merito di installare nel 1957, anno internazionale geofisico, insieme a David Keeling, la prima stazione di misura di biossido di carbonio a Mauna Loa, nelle isole Hawaii, mostrando così al mondo per la prima volta l’aumento effettivo di questo gas serra. Questi dati erano e sono una dimostrazione che le recenti attività economiche ed industriali dell’uomo, essendo strettamente interconnesse con la produzione di energia proveniente dai combustibili fossili e con la deforestazione e l’inaridimento di vaste aree del pianeta a scopo abitativo e agricolo, hanno come conseguenza la variazione della composizione chimica dell’atmosfera e dell’idrosfera terrestre, che sta diventando sempre più pronunciata. La serie delle misure di CO2 di Mauna Loa e delle altre stazioni, così come anche le serie più recenti di misura degli altri gas serra in tutto il mondo e le misure dedotte dai cosiddetti proxy data, mostrano infatti inconfutabilmente che la crescita delle concentrazioni dei gas serra sono andate aumentando nel tempo in maniera quasi esponenziale a partire proprio dalla rivoluzione industriale. La questione delle condizioni climatiche del futuro è oramai diventata intimamente connessa al problema generale dell’impatto umano sull’ambiente, e questo problema sta suscitando attualmente grosse preoccupazioni. Già nel 1977 lo scienziato russo Evgenii Konstantinovich Fedorov sosteneva che soltanto una società organizzata, in grado di controllare le proprie azioni e interazioni con la natura a scala globale, può permettersi di modificare la natura a scala globale senza suscitare una crisi ecologica. Per fare questo, è necessario studiare le conseguenze delle attività umane collegate all’ambiente allo scopo di trovare e minimizzare gli effetti avversi delle stesse. Un primo passo su questa strada, in effetti, è stato fatto: dalla fine degli anni 1970, infatti, la comunità internazionale, tramite l’ONU, ha preso in considerazione i cambiamenti climatici globali come fattore di rischio per l’umanità e si è dotata di organismi e strumenti per lo studio del fenomeno e dei suoi impatti. Da un lato, ciò ha comportato che si studiasse di più e si cominciasse a conoscere meglio il fenomeno dei cambiamenti climatici. Dall’altro lato, questo problema è stato gradualmente reso di dominio pubblico tramite i media e portato alla ribalta dal punto di vista della negoziazione internazionale. I risultati delle analisi dei sedimenti oceanici e delle carote di ghiaccio polari hanno messo in evidenza che, negli ultimi 800.000 anni, il clima terrestre ha oscillato più volte tra due estremi, le glaciazioni e i periodi interglaciali, in uno dei quali ci troviamo oggi. La temperatura media attuale si colloca in prossimità dei massimi di temperatura registrati nell’ultimo milione di anni. In corrispondenza delle oscillazioni di temperatura media globale, anche la concentrazione di CO2 ha mostrato notevoli variazioni molto ben correlate a quelle di temperatura. I valori attuali di CO2 (così come quelli di tutti i principali gas serra) sono tuttavia enormemente superiori a quelli occorsi durante gli ultimi 800.000 anni. Per ritrovare valori di CO2 simili a quelli attuali, bisogna risalire indietro nel tempo fino all’era fanerozoica, decine di milioni di anni fa. A quell’epoca, tuttavia, la temperatura media globale ricostruita tramite i sedimenti oceanici era molto superiore a quella odierna e, soprattutto, l’uomo non esisteva ancora, nemmeno come ominide. La modellistica numerica consente oggi di effettuare delle stime sui valori di alcuni parametri climatici nel prossimo futuro. Esse non vanno intese come una verità assoluta, tanto è vero che la comunità scientifica approfondisce quotidianamente i punti critici della ricerca nel settore, come ad esempio l’influenza degli aerosol e delle nubi sul clima e l’affidabilità dei modelli stessi. Tuttavia, al giorno d’oggi, l’IPCC rappresenta il consesso di climatologi scientificamente più autorevole al mondo, anche perché gli scienziati che vi lavorano provengono da tutti i Paesi ed hanno diverse estrazioni scientifiche (ci sono chimici, fisici, geologi, biologi, ecc.). Anche i modelli utilizzati per le simulazioni climatiche, e quindi le loro previsioni, pur essendo ben lontani dall’essere perfetti (del resto, il modello perfetto non esiste e forse non esisterà mai), rappresentano quanto di meglio è attualmente disponibile. Le ricerche condotte da questi scienziati sono accettate dalla maggioranza della comunità scientifica internazionale, pur con qualche opinione contraria su alcuni aspetti che, comunque, appartiene alla normale dialettica scientifica. Per il prossimo futuro, i ricercatori sono univocamente concordi nel ritenere che la concentrazione dei gas serra continuerà ad aumentare a lungo anche se la loro produzione dovesse diminuire (cosa che, almeno a breve termine, è molto difficile da ipotizzare, almeno a livello globale): per esempio, le concentrazioni di CO2 potrebbero attestarsi su valori non molto diversi da quelli tipici del periodo geologico terziario. I modelli utilizzati dall’IPCC sono concordi nel mostrare che, come conseguenza dell’aumento dei gas serra, anche la temperatura media globale subirà un aumento significativo, la cui entità non è determinabile con certezza in quanto dipende fortemente dagli scenari economici e dalle modalità di produzione di energia. Più complicata risulta invece la determinazione della variazione della piovosità, il cui segnale è meno omogeneo, ma alcuni studi preliminari permettono di asserire che alcune macroregioni (tra le quali proprio le Alpi ed il Mediterraneo, ma anche la maggioranza delle regioni tropicali ed equatoriali, dove vivono miliardi di persone) potrebbero sperimentare climi molto più caldi e secchi nelle stagioni estive, che potrebbero influire fortemente, in modo negativo, sulla produttività agricola. Le conseguenze di questi cambiamenti potrebbero dunque riflettersi sulle attività umane e, in generale, sulla qualità di vita, anche in modo pesante. Questo non soltanto a causa degli effetti diretti ed indiretti (aumento degli episodi di siccità, alluvioni, fenomeni estremi, perdita dei territori costieri, regresso dei ghiacciai montani e conseguente perdita di risorse idriche, produttività della vegetazione, alterazione degli ecosistemi) ma anche, e soprattutto, a causa della rapidità di questi cambiamenti, che potrebbe rendere molto difficile l’adattamento della società umana e dell’ecosistema. La maggior parte dei modelli prevede, infatti, variazioni consistenti già tra un ventennio. In conclusione, lo scopo della mostra è quello di consentire al visitatore di approfondire questi temi facendogli conoscere e comprendere il succo delle teorie scientifiche più accreditate al momento, e che cosa si intende per cambiamenti climatici, quali sono gli effetti principali, e perché un numero sempre maggiore di persone sta preoccupandosi per l’accelerazione dei cambiamenti climatici già in atto. È forse inutile dirlo, ma vorrei sottolineare che l’intenzione degli organizzatori di questa mostra vuole prendere le distanze da una visione catastrofista dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze, ma al tempo stesso non vuole nemmeno sottovalutare la portata di tali scenari. Proprio per questo motivo, la mostra si propone innanzitutto di chiarire al visitatore con dati scientifici che i cambiamenti climatici sono già in atto, ed a questo argomento è dedicata la quasi totalità dello spazio espositivo. Nella parte finale della mostra stessa, saranno esposti alcuni spunti di riflessione riguardo all’atteggiamento costruttivo che, ci augureremmo, venisse assunto nei confronti del fenomeno. A partire anche da piccole variazioni nelle nostre abitudini quotidiane (per esempio, se si potesse, in qualche modo, ottenere lo stesso risultato sprecando meno energia, inquinando meno l’ambiente, e magari anche ottenendo un beneficio per la salute e risparmiando, perché non lo si dovrebbe fare?), fino ad arrivare a quelle più impegnative.
I tempi stanno cambiando
CASSARDO, Claudio;
2008-01-01
Abstract
Il titolo che abbiamo voluto dare a questa mostra (i tempi stanno cambiando) sintetizza in una frase i grandi cambiamenti sociali e tecnologici, ma anche ambientali e climatici, che caratterizzano, a ritmi sempre più rapidi, la nostra epoca. Lo scopo della mostra, che si evince dal sottotitolo, è invece quello di cercare di fare un po’ di chiarezza sulla questione dei cambiamenti climatici cercando di fornire una rassegna, allo stesso tempo di stile divulgativo ma scientificamente rigorosa, aggiornata allo stato dell’arte della ricerca contemporanea sul clima. Se infatti molti hanno sentito parlare almeno una volta del protocollo di Kyoto e dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climatic Change, cioè comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici), un po’ meno noti sono gli obiettivi del protocollo stesso o i risultati scientifici raggiunti dall’IPCC. Quest’anno, tra l’altro, l’IPCC compie 20 anni: è infatti stato fondato nel 1988 come organismo scientifico consultivo dell’ONU; inoltre, è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Erano gli anni in cui il “problema” climatico più pressante sembrava essere quello del buco dell’ozono, mentre la temperatura media globale aveva ricominciato da una decina d’anni ad aumentare, dopo la pausa del trentennio postbellico. A vent’anni di distanza, ci sono molti più dati osservativi: le carote glaciali antartiche di Vostok e del progetto EPICA, quelle groenlandesi delle campagne GRIP, le carote di sedimenti oceanici, le serie osservative più lunghe sia di concentrazioni di gas serra (come quella di Mauna Loa, ora lunga mezzo secolo), sia di parametri meteorologici (come la serie ultrasecolare di Torino, la cui analisi verrà esposta in anteprima in questa mostra). Inoltre, anche la modellistica numerica, sfruttando la maggiore potenza dei computer e gli sviluppi recenti delle teorie fisiche e chimiche, ha raggiunto un’affidabilità tale da rendere credibili i risultati delle simulazioni svolte. Nel contempo, molti studi sono stati anche svolti sull’influenza del clima nella storia dell’uomo. La storia ci insegna che il clima ha influenzato la vita e l’attività dell’uomo sin dalle prime fasi della sua comparsa, così come, del resto, era successo nei confronti della flora e della fauna prima che l’uomo colonizzasse il pianeta. Alcuni studiosi sostengono infatti che la stessa evoluzione umana dai primati sia stata favorita da variazioni climatiche (effettivamente avvenute durante l’epoca del declino cenozoico) che, modificando l’ecosistema delle foreste pluviali africane, avrebbero forzato dei cambiamenti nelle abitudini e nella dieta dei primi ominidi, nonché le loro migrazioni verso gli altri continenti nell’era Paleolitica. Allo stesso tempo, la densità abitativa in diverse aree del globo è stata, ed è ancora oggi, fortemente correlata alle condizioni climatiche (molte aree desertiche ed artiche sono ancor oggi abitate in modo esiguo, se non disabitate). La maggior parte della popolazione umana vive concentrata in porzioni limitate (ma in continua espansione) di territorio, nelle quali le condizioni climatiche sono più favorevoli per la vita e le attività umane. Inoltre, anche l’efficienza delle attività umane e l’economia stessa sono fortemente influenzate dal clima (si pensi all’agricoltura, alle opere ingegneristiche, all’edilizia, ecc.). Tuttavia, è vero anche il discorso contrario. Le attività umane agricole, industriali e tecnologiche hanno ormai raggiunto un livello tale per cui i loro effetti interessano l’intero globo terrestre, coinvolgendo i sistemi naturali, cioè l’atmosfera, le terre emerse e gli oceani, così come tutte le forme di vita sul pianeta. Questo non avviene soltanto perché la popolazione umana continua a crescere pressoché esponenzialmente (l’attuale tasso di crescita, 1.23% annuo, prevede un raddoppio della popolazione ogni 59 anni circa), ma anche perché le attività umane alterano la composizione stessa dell’atmosfera mediante l’immissione di gas, sia già esistenti in natura (come i biossidi di carbonio ed azoto, il metano, ecc.), sia sintetizzati artificialmente (come ad esempio i clorofluorocarburi, responsabili del buco dell’ozono, e tanti altri). Altri effetti delle attività umane, non meno importanti, provocano la riduzione delle aree forestate, la desertificazione del territorio e la crescita dei livelli di inquinamento, sia in atmosfera che negli oceani. In realtà, l’idea che i cambiamenti climatici potessero essere il risultato di emissioni di gas serra non è nuova, in quanto, nel lontano 1896, il chimico e fisico svedese Svante Arrhenius già teorizzava che l’utilizzo dei combustibili fossili avrebbe potuto comportare un aumento delle concentrazioni atmosferiche di biossido di carbonio e, quindi, alterare il bilancio energetico del sistema Terra-atmosfera-oceano. Tuttavia, la prima dimostrazione inconfutabile dell’aumento di biossido di carbonio in atmosfera fu fatta dall’ingegnere Guy Stewart Callendar nel 1938, mentre Roger Revelle ebbe il merito di installare nel 1957, anno internazionale geofisico, insieme a David Keeling, la prima stazione di misura di biossido di carbonio a Mauna Loa, nelle isole Hawaii, mostrando così al mondo per la prima volta l’aumento effettivo di questo gas serra. Questi dati erano e sono una dimostrazione che le recenti attività economiche ed industriali dell’uomo, essendo strettamente interconnesse con la produzione di energia proveniente dai combustibili fossili e con la deforestazione e l’inaridimento di vaste aree del pianeta a scopo abitativo e agricolo, hanno come conseguenza la variazione della composizione chimica dell’atmosfera e dell’idrosfera terrestre, che sta diventando sempre più pronunciata. La serie delle misure di CO2 di Mauna Loa e delle altre stazioni, così come anche le serie più recenti di misura degli altri gas serra in tutto il mondo e le misure dedotte dai cosiddetti proxy data, mostrano infatti inconfutabilmente che la crescita delle concentrazioni dei gas serra sono andate aumentando nel tempo in maniera quasi esponenziale a partire proprio dalla rivoluzione industriale. La questione delle condizioni climatiche del futuro è oramai diventata intimamente connessa al problema generale dell’impatto umano sull’ambiente, e questo problema sta suscitando attualmente grosse preoccupazioni. Già nel 1977 lo scienziato russo Evgenii Konstantinovich Fedorov sosteneva che soltanto una società organizzata, in grado di controllare le proprie azioni e interazioni con la natura a scala globale, può permettersi di modificare la natura a scala globale senza suscitare una crisi ecologica. Per fare questo, è necessario studiare le conseguenze delle attività umane collegate all’ambiente allo scopo di trovare e minimizzare gli effetti avversi delle stesse. Un primo passo su questa strada, in effetti, è stato fatto: dalla fine degli anni 1970, infatti, la comunità internazionale, tramite l’ONU, ha preso in considerazione i cambiamenti climatici globali come fattore di rischio per l’umanità e si è dotata di organismi e strumenti per lo studio del fenomeno e dei suoi impatti. Da un lato, ciò ha comportato che si studiasse di più e si cominciasse a conoscere meglio il fenomeno dei cambiamenti climatici. Dall’altro lato, questo problema è stato gradualmente reso di dominio pubblico tramite i media e portato alla ribalta dal punto di vista della negoziazione internazionale. I risultati delle analisi dei sedimenti oceanici e delle carote di ghiaccio polari hanno messo in evidenza che, negli ultimi 800.000 anni, il clima terrestre ha oscillato più volte tra due estremi, le glaciazioni e i periodi interglaciali, in uno dei quali ci troviamo oggi. La temperatura media attuale si colloca in prossimità dei massimi di temperatura registrati nell’ultimo milione di anni. In corrispondenza delle oscillazioni di temperatura media globale, anche la concentrazione di CO2 ha mostrato notevoli variazioni molto ben correlate a quelle di temperatura. I valori attuali di CO2 (così come quelli di tutti i principali gas serra) sono tuttavia enormemente superiori a quelli occorsi durante gli ultimi 800.000 anni. Per ritrovare valori di CO2 simili a quelli attuali, bisogna risalire indietro nel tempo fino all’era fanerozoica, decine di milioni di anni fa. A quell’epoca, tuttavia, la temperatura media globale ricostruita tramite i sedimenti oceanici era molto superiore a quella odierna e, soprattutto, l’uomo non esisteva ancora, nemmeno come ominide. La modellistica numerica consente oggi di effettuare delle stime sui valori di alcuni parametri climatici nel prossimo futuro. Esse non vanno intese come una verità assoluta, tanto è vero che la comunità scientifica approfondisce quotidianamente i punti critici della ricerca nel settore, come ad esempio l’influenza degli aerosol e delle nubi sul clima e l’affidabilità dei modelli stessi. Tuttavia, al giorno d’oggi, l’IPCC rappresenta il consesso di climatologi scientificamente più autorevole al mondo, anche perché gli scienziati che vi lavorano provengono da tutti i Paesi ed hanno diverse estrazioni scientifiche (ci sono chimici, fisici, geologi, biologi, ecc.). Anche i modelli utilizzati per le simulazioni climatiche, e quindi le loro previsioni, pur essendo ben lontani dall’essere perfetti (del resto, il modello perfetto non esiste e forse non esisterà mai), rappresentano quanto di meglio è attualmente disponibile. Le ricerche condotte da questi scienziati sono accettate dalla maggioranza della comunità scientifica internazionale, pur con qualche opinione contraria su alcuni aspetti che, comunque, appartiene alla normale dialettica scientifica. Per il prossimo futuro, i ricercatori sono univocamente concordi nel ritenere che la concentrazione dei gas serra continuerà ad aumentare a lungo anche se la loro produzione dovesse diminuire (cosa che, almeno a breve termine, è molto difficile da ipotizzare, almeno a livello globale): per esempio, le concentrazioni di CO2 potrebbero attestarsi su valori non molto diversi da quelli tipici del periodo geologico terziario. I modelli utilizzati dall’IPCC sono concordi nel mostrare che, come conseguenza dell’aumento dei gas serra, anche la temperatura media globale subirà un aumento significativo, la cui entità non è determinabile con certezza in quanto dipende fortemente dagli scenari economici e dalle modalità di produzione di energia. Più complicata risulta invece la determinazione della variazione della piovosità, il cui segnale è meno omogeneo, ma alcuni studi preliminari permettono di asserire che alcune macroregioni (tra le quali proprio le Alpi ed il Mediterraneo, ma anche la maggioranza delle regioni tropicali ed equatoriali, dove vivono miliardi di persone) potrebbero sperimentare climi molto più caldi e secchi nelle stagioni estive, che potrebbero influire fortemente, in modo negativo, sulla produttività agricola. Le conseguenze di questi cambiamenti potrebbero dunque riflettersi sulle attività umane e, in generale, sulla qualità di vita, anche in modo pesante. Questo non soltanto a causa degli effetti diretti ed indiretti (aumento degli episodi di siccità, alluvioni, fenomeni estremi, perdita dei territori costieri, regresso dei ghiacciai montani e conseguente perdita di risorse idriche, produttività della vegetazione, alterazione degli ecosistemi) ma anche, e soprattutto, a causa della rapidità di questi cambiamenti, che potrebbe rendere molto difficile l’adattamento della società umana e dell’ecosistema. La maggior parte dei modelli prevede, infatti, variazioni consistenti già tra un ventennio. In conclusione, lo scopo della mostra è quello di consentire al visitatore di approfondire questi temi facendogli conoscere e comprendere il succo delle teorie scientifiche più accreditate al momento, e che cosa si intende per cambiamenti climatici, quali sono gli effetti principali, e perché un numero sempre maggiore di persone sta preoccupandosi per l’accelerazione dei cambiamenti climatici già in atto. È forse inutile dirlo, ma vorrei sottolineare che l’intenzione degli organizzatori di questa mostra vuole prendere le distanze da una visione catastrofista dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze, ma al tempo stesso non vuole nemmeno sottovalutare la portata di tali scenari. Proprio per questo motivo, la mostra si propone innanzitutto di chiarire al visitatore con dati scientifici che i cambiamenti climatici sono già in atto, ed a questo argomento è dedicata la quasi totalità dello spazio espositivo. Nella parte finale della mostra stessa, saranno esposti alcuni spunti di riflessione riguardo all’atteggiamento costruttivo che, ci augureremmo, venisse assunto nei confronti del fenomeno. A partire anche da piccole variazioni nelle nostre abitudini quotidiane (per esempio, se si potesse, in qualche modo, ottenere lo stesso risultato sprecando meno energia, inquinando meno l’ambiente, e magari anche ottenendo un beneficio per la salute e risparmiando, perché non lo si dovrebbe fare?), fino ad arrivare a quelle più impegnative.File | Dimensione | Formato | |
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