Tra il settembre 1548 e la fine del 1556, una folta schiera di artisti si susseguirono, sovrapponendosi, per completare il sontuoso palazzo che il cardinale Girolamo Capodiferro volle edificare trasformando vari stabili in possesso della famiglia, collocati tra via Giulia e Campo de’ Fiori, in prossimità di palazzo Farnese. Gli interventi di restauro succedutesi tra gli anni Settanta e Novanta hanno ampliato le conoscenze sul numero e la natura delle stanze decorate, e la documentazione pubblicata, relativa ai contratti di lavoro, offre ora appigli più saldi agli studi, ma ancora molto lavoro è da compiersi per intendere a fondo questo complesso cantiere. I dati ricavati tramite i diversi approcci – la ricerca d’archivio, lo studio dei materiali, i verbali dei restauri – possono infatti fornire ulteriori informazioni se letti alla luce dei rivolgimenti storiografici che hanno interessato l’età della Maniera e che hanno permesso il sorgere di un nuovo orientamento, maggiormente rivolto ai materiali e alle tecniche, che conduce a più precise osservazioni tanto in merito all’esecuzione quanto all’organizzazione delle équipes di lavoro. Le conseguenze principali di tali recenti acquisizioni si misurano nell’evidente efficacia che può raggiungere uno sguardo interessato a mettere insieme i dati che sono stati tradizionalmente intesi ad uso degli storici dell’architettura con quelli invece assegnati alla disciplina storico-artistica: ne è un esempio, in questo cantiere, la rilettura dei verbali di un processo svoltosi nel 1560, che vide opposti la madre del cardinale appena scomparso, Bernardina, e i cugini dello stesso, Domenico e Tiberio, già resi noti da John Hunter nel 1984 ma dalle implicazioni molto più numerose di quanto il breve articolo dello studioso abbia avuto modo di esplorare. Portato ulteriore è l’interesse per la ricostruzione delle microstorie dei diversi artefici – stuccatori, scalpellini, muratori, e la più varia manodopera – che, in misura anche maggiore rispetto a quelle dei grandi protagonisti – pittori, scultori, architetti – permettono di ricomporre la complessa trama della circolazione delle maestranze e delle soluzioni decorative nella Roma di Paolo III e Giulio III, ma anche al di fuori dell’Urbe, nella Penisola e al di là delle Alpi. Questo contributo si propone inoltre di offrire una rinnovata lettura della cultura tecnica e della pratica dello stucco, l’elemento che da sempre ha contraddistinto la dimora del Capodiferro e che, alla luce dei recentissimi aggiornamenti negli studi sulla decorazione a stucco, deve essere posto alla base della ricostruzione critica dell’allestimento del palazzo, poiché permette di metterne in discussione i modelli, aprendo a un’indagine più ampia sui meccanismi di diffusione e contaminazione tra le arti. Queste operazioni contribuiscono alla messa a fuoco delle conoscenze inerenti al funzionamento dei cantieri decorativi nel contesto romano di metà secolo, implementando anche quelle relative agli artisti attivi nel palazzo: in primis il piacentino Giulio Mazzoni, pittore, scultore e plasticatore. L’individuazione, ad opera di chi scrive, di un foglio riconducibile alla sua mano, preparatorio per la decorazione di uno dei fregi del palazzo, permette di avanzare nuove osservazioni sulle dinamiche di lavoro, sul rapporto tra progetto ed esecuzione e sull’uso e la traduzione dei modelli.
«Pulcherrimam regiamque domum». Il cantiere di palazzo Capodiferro Spada: la “setta sangallesca”, l’eredità di Perino del Vaga, il trionfo dello stucco
Serena QuagliaroliFirst
2024-01-01
Abstract
Tra il settembre 1548 e la fine del 1556, una folta schiera di artisti si susseguirono, sovrapponendosi, per completare il sontuoso palazzo che il cardinale Girolamo Capodiferro volle edificare trasformando vari stabili in possesso della famiglia, collocati tra via Giulia e Campo de’ Fiori, in prossimità di palazzo Farnese. Gli interventi di restauro succedutesi tra gli anni Settanta e Novanta hanno ampliato le conoscenze sul numero e la natura delle stanze decorate, e la documentazione pubblicata, relativa ai contratti di lavoro, offre ora appigli più saldi agli studi, ma ancora molto lavoro è da compiersi per intendere a fondo questo complesso cantiere. I dati ricavati tramite i diversi approcci – la ricerca d’archivio, lo studio dei materiali, i verbali dei restauri – possono infatti fornire ulteriori informazioni se letti alla luce dei rivolgimenti storiografici che hanno interessato l’età della Maniera e che hanno permesso il sorgere di un nuovo orientamento, maggiormente rivolto ai materiali e alle tecniche, che conduce a più precise osservazioni tanto in merito all’esecuzione quanto all’organizzazione delle équipes di lavoro. Le conseguenze principali di tali recenti acquisizioni si misurano nell’evidente efficacia che può raggiungere uno sguardo interessato a mettere insieme i dati che sono stati tradizionalmente intesi ad uso degli storici dell’architettura con quelli invece assegnati alla disciplina storico-artistica: ne è un esempio, in questo cantiere, la rilettura dei verbali di un processo svoltosi nel 1560, che vide opposti la madre del cardinale appena scomparso, Bernardina, e i cugini dello stesso, Domenico e Tiberio, già resi noti da John Hunter nel 1984 ma dalle implicazioni molto più numerose di quanto il breve articolo dello studioso abbia avuto modo di esplorare. Portato ulteriore è l’interesse per la ricostruzione delle microstorie dei diversi artefici – stuccatori, scalpellini, muratori, e la più varia manodopera – che, in misura anche maggiore rispetto a quelle dei grandi protagonisti – pittori, scultori, architetti – permettono di ricomporre la complessa trama della circolazione delle maestranze e delle soluzioni decorative nella Roma di Paolo III e Giulio III, ma anche al di fuori dell’Urbe, nella Penisola e al di là delle Alpi. Questo contributo si propone inoltre di offrire una rinnovata lettura della cultura tecnica e della pratica dello stucco, l’elemento che da sempre ha contraddistinto la dimora del Capodiferro e che, alla luce dei recentissimi aggiornamenti negli studi sulla decorazione a stucco, deve essere posto alla base della ricostruzione critica dell’allestimento del palazzo, poiché permette di metterne in discussione i modelli, aprendo a un’indagine più ampia sui meccanismi di diffusione e contaminazione tra le arti. Queste operazioni contribuiscono alla messa a fuoco delle conoscenze inerenti al funzionamento dei cantieri decorativi nel contesto romano di metà secolo, implementando anche quelle relative agli artisti attivi nel palazzo: in primis il piacentino Giulio Mazzoni, pittore, scultore e plasticatore. L’individuazione, ad opera di chi scrive, di un foglio riconducibile alla sua mano, preparatorio per la decorazione di uno dei fregi del palazzo, permette di avanzare nuove osservazioni sulle dinamiche di lavoro, sul rapporto tra progetto ed esecuzione e sull’uso e la traduzione dei modelli.File | Dimensione | Formato | |
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